Questo blog ha delle regole, ma siccome le ho fatte io e servono soprattutto a non dare un senso all'ordine di pubblicazione dei post, questa volta ne faccio a meno.
Ieri è morta Amy Winehouse, cantante inglese oggettivamente dotata di enorme talento, piena di successo e ricchezza. Con ogni probabilità è morta per l'uso costante di droga, così come era prevedibile, vista la sua storia personale.
Questa morte ha fatto scaturire su Internet una marea di commenti e molti tra essi ben segnalano certi atteggiamenti del tutto illogici che sono però largamente diffusi e così dati per sensati.
Ecco un classico: "Era giovane, piena di talento e successo, quindi anche ricca. Se è morta, se lo è meritata, avendo buttato via tutto questo. Se si drogava perchè era infelice è perché non si è resa conto di quanto fosse fortunata e privilegiata."
Appare logico affermare che il mix gioventù/talento/successo/denaro è, per chi scrive cose del genere, la ricetta base della felicità. Con quei quattro componenti la felicità è assicurata e se chi li possiede non se ne rende conto merita di morire. Punto.
Fosse vero, allora la felicità sarebbe preclusa a chi non disponesse degli ingredienti citati: se hai 70 anni, non hai un talento ragguardevole, non sei in televisione e non hai qualche milione di euro la felicità scordatela, affermano con assoluta ed implicita fermezza.
Dunque se sei un nonno, con alle spalle una storia di normale lavoro, vivi della tua pensione e pensi di essere felice mentre, ad esempio, ti coccoli il tuo nipotino sulle ginocchia, non hai capito nulla della vita.
Già questo dice quanto i valori di riferimento di tante persone siano del tutto illogici (lasciando perdere i concetti di "giusto" e "sbagliato").
Ma c'è di più.
Questi censori, questi detentori della assoluta certezza su chi meriti di morire e chi di sopravvivere, spesso pieni di umana compassione per i bimbi africani (sempre che se ne stiano dal lato giusto del Mediterraneo, ben si intende), non perdonano assolutamente chi non riesce a trovare la felicità disponendo di consistenti mezzi e accluse proprietà.
Chiedono la morte, o nel miglior caso non ne provano pietà, per tutti coloro che non riescono a dirsi felici pur essendo ricolmi di quelli che sono i loro (dei censori) reali valori.
Si può ragionevolmente dubitare che auspicherebbero la fine anche di chi, cucinata la ricetta già descritta e ottenuta la felicità, se ne facesse spavaldo: in quel caso, la morte sarebbe a parer loro meritata per mancanza di umiltà del felice.
Per sopravvivere, quella persona dovrebbe dunque essere felice ma non dirlo a nessuno, badando al contempo a non apparire infelice, sia ben chiaro.
La lista dei condannati a morte si allunga: a chi ha i mezzi, ma non la felicità, va aggiunto chi ha i mezzi, la felicità e non l'umiltà di dissimularla.
Quand'anche esistesse una persona felice ed attentamente proba, ancora non basterebbe.
I solerti giudici di vite altrui tirerebbero allora fuori l'asso dalla manica: la fortuna.
Già, perchè avendo gioventù/talento/successo/denaro appare chiaro che si è stati fortunati. E la fortuna quella no, quella non si può perdonare proprio. Chi è portatore di tutto questo fardello (gioventù/talento/successo/denaro ed implicita fortuna) merita la morte immediata, lunga e dolorosa.
E' infatti chiaro, nelle loro menti, che la fortuna è una sostanza impalpabile, non misurabile ma certamente disponibile in quantità finita e chi ne ha di più l'ha quindi sottratta ad altri. Intanto ai bimbi africani e, in subordine ma non tanto, sicuramente ai nostri implacabili saggi.
Sì, perchè a sentirli sono loro, i carnefici, le vere vittime: appena bevono un bicchiere di vino sono pronti a raccontarti di quella volta che, se fosse andata diversamente, avrebbero finalmente potuto far felicità del loro innato talento, divenendo così famosi, quindi ricchi e infine persino giovani.
Ma la morte viene per tutti e non fa la morale a nessuno. Non ha niente a che vedere con il merito.
Invece la condanna a morte (anticipata o postuma, come nel caso di specie) quella sì ha a che fare con i nostri giudizi e davvero sarebbe meglio eliminarla dalle umane convinzioni e convenzioni. Una volta per tutte.
Credo che l'ostinazione di certe persone nel reclamare al fato (o a Dio, ché spesso si tratta di fervidi credenti) la morte altrui sia solo lo specchio della morte loro, che li divora da vivi con non minore ferocia.
Condanna che non si meritano, nemmeno loro, umani tra gli umani, deboli tra i deboli e di tale debolezza così tremanti da farsi forti con chi è più debole di loro, sia famosa e deceduta stella della musica sia incauto bimbo affamato sceso dal barcone libico.
domenica 24 luglio 2011
Zombie
lunedì 18 luglio 2011
Diavolo d'un traduttore!!!
Ho sempre pensato che la traduzione linguistica sia uno delle aree in cui l'uso dell'intelligenza umana può davvero spingersi molto avanti.
Come chiunque si sia divertito a provarci ben sa, tradurre sta al dizionario come ricercare sta alla matematica.
Trovare il corrispettivo in un'altra lingua di una certa parola è infatti il primo passaggio di un'operazione ben più lunga e affascinante, quella di trasmettere un significato attraverso codici diversi.
Tradurre è quindi interpretare. L'interpretazione richiede un attore, ed a quell'attore si richiede non solo di conoscere le due lingue in questione, ma di "essere" (o meglio di "diventare") l'originale estensore di quel testo. Capire "ciò che l'autore intendeva dire", con tutti i colori ed i sapori che egli aveva saputo e voluto mettere nella sua frase scritta.
Esistono traduttori così bravi che riescono talvolta a migliorare la comprensibilità di un testo, nel senso di renderlo talmente affine alla sensibilità del lettore da trasferire ad esso "ciò che l'autore intendeva dire" in maniera ancora migliore di quanto l'autore stesso non fosse stato capace.
Le cose si complicano, diventando ancora più intellettualmente divertenti, quando si mette di mezzo un personaggio. Quando cioè l'opinione dell'autore arriva già mediata da un'altra figura.
A questo punto è infatti necessario che l'interprete aggiunga, diciam così, un ulteriore "filtro" la cui limpidezza è pari alla capacità del traduttore di immedesimarsi nel personaggio, cioè di intenderne il pensiero, la volontà e l'agire.
Date queste basi, esistono testi virtualmente intraducibili.
Ad esempio, quando il personaggio letterario non è umano. Interpretare il pensiero marziano è oggettivamente impossibile per la mancanza di termini di paragone (non abbiamo sufficiente frequentazione con gli abitanti di quel pianeta).
In altri casi, il personaggio non umano è derivante da matrici culturali ben note al traduttore. Ad esempio, il diavolo.
Se il testo che si vuol tradurre si colloca nell'ambito della cultura "popolare" occidentale, influenzata dal cristianesimo, il traduttore ha ben presente quale possa essere, in senso lato, l'insieme di caratteristiche che autore e lettore condividono rispetto al soggetto "diavolo".
Tutto salta quando queste "caratteristiche culturalmente condivise" non vengono rispettate dall'autore.
E' traducibile un testo in cui il diavolo parli in prima persona e riveli aspetti suoi propri difformi dal comune sentire (ovvero contrarie ai preconcetti che si hanno sul personaggio "diavolo")?
Se non vi siete annoiati fino a qui, vi meritate una pausa musicale:
clicca qui
e qualcosa da tradurre
divertiti!
e infine un consiglio: quella di "Il Maestro e Margherita" è una falsa pista...
Non fidatevi del diavolo ed abbiatene pietà: è solo un traduttore.
Come chiunque si sia divertito a provarci ben sa, tradurre sta al dizionario come ricercare sta alla matematica.
Trovare il corrispettivo in un'altra lingua di una certa parola è infatti il primo passaggio di un'operazione ben più lunga e affascinante, quella di trasmettere un significato attraverso codici diversi.
Tradurre è quindi interpretare. L'interpretazione richiede un attore, ed a quell'attore si richiede non solo di conoscere le due lingue in questione, ma di "essere" (o meglio di "diventare") l'originale estensore di quel testo. Capire "ciò che l'autore intendeva dire", con tutti i colori ed i sapori che egli aveva saputo e voluto mettere nella sua frase scritta.
Esistono traduttori così bravi che riescono talvolta a migliorare la comprensibilità di un testo, nel senso di renderlo talmente affine alla sensibilità del lettore da trasferire ad esso "ciò che l'autore intendeva dire" in maniera ancora migliore di quanto l'autore stesso non fosse stato capace.
Le cose si complicano, diventando ancora più intellettualmente divertenti, quando si mette di mezzo un personaggio. Quando cioè l'opinione dell'autore arriva già mediata da un'altra figura.
A questo punto è infatti necessario che l'interprete aggiunga, diciam così, un ulteriore "filtro" la cui limpidezza è pari alla capacità del traduttore di immedesimarsi nel personaggio, cioè di intenderne il pensiero, la volontà e l'agire.
Date queste basi, esistono testi virtualmente intraducibili.
Ad esempio, quando il personaggio letterario non è umano. Interpretare il pensiero marziano è oggettivamente impossibile per la mancanza di termini di paragone (non abbiamo sufficiente frequentazione con gli abitanti di quel pianeta).
In altri casi, il personaggio non umano è derivante da matrici culturali ben note al traduttore. Ad esempio, il diavolo.
Se il testo che si vuol tradurre si colloca nell'ambito della cultura "popolare" occidentale, influenzata dal cristianesimo, il traduttore ha ben presente quale possa essere, in senso lato, l'insieme di caratteristiche che autore e lettore condividono rispetto al soggetto "diavolo".
Tutto salta quando queste "caratteristiche culturalmente condivise" non vengono rispettate dall'autore.
E' traducibile un testo in cui il diavolo parli in prima persona e riveli aspetti suoi propri difformi dal comune sentire (ovvero contrarie ai preconcetti che si hanno sul personaggio "diavolo")?
Se non vi siete annoiati fino a qui, vi meritate una pausa musicale:
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e qualcosa da tradurre
divertiti!
e infine un consiglio: quella di "Il Maestro e Margherita" è una falsa pista...
Non fidatevi del diavolo ed abbiatene pietà: è solo un traduttore.
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