Come si sarà capito, in questo blog ci sono più domande che risposte.
Leggendo questo articolo, magari depurato di qualche eccesso giornalistico, di questioni ne sorgono tantissime.
Passati due anni dalla sua pubblicazione, viene da pensare al fatto che azienda e lavoratore (di qualsiasi grado esso sia) sembrano sempre più distanti e, insieme, sempre più connessi.
Sebbene questa sensazione si rafforzi ogni volta che si vive un periodo di crisi economica (se vi capita, leggetevi "Furore" di John Steinbeck, la cui storia si svolge proprio in quel periodo), questa dicotomia tra l'umano ed uno dei suoi più classici ambienti sociali è sempre presente nella nostra storia recente.
Se è vero, com'è stato detto, che lo Stato si fonda sulla paura, o meglio sulle paure, e che a queste pone freno attraverso le sue attività più classiche (difesa delle frontiere, dell'ordine interno, del lavoro ecc.) ci si può chiedere quanto l'azienda possa sostituire, in un momento di "Stato debole" in molti Paesi, quella funzione protettiva.
Spesso questa fiducia riversata verso l'azienda verso cui si lavora viene tradita.
Ed i discorsi "cinici" di molti, non preservano quelle stesse persone dal dolore che tale "tradimento" comporta.
Dunque, ci si fida periodicamente di qualcosa che già sappiamo lucidamente (sulla base delle regole del mercato) si comporta con ampio disinteresse dei destini umani coinvolti nelle proprie dinamiche economiche.
Quanto è forte la paura umana del domani, se essa è così forte da far ripetere continuamente questo "affidamento" nonostante le continue disillusioni?
E le parole? Quanto del gergo che usiamo per parlare di lavoro sono fragili culle della fatica di vivere?
"Welfare" sembra la perfetta sintesi di quest'ultimo interrogativo.
Sei in assoluta controtendenza ad aprire un blog. Complimenti!:)
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