giovedì 14 febbraio 2013

Capire tutti.


Considerata una combinazione di caratteristiche comportamentali mi pare si possa dire, con il conforto della matematica, che un gruppo umano di migliaia di individui non è complessivamente dissimile da un altro che si formi nel medesimo contesto sociale. Per fare un esempio, un gruppo di ultras della squadra A non è dissimile da un analogo insieme che tifi per la rivale squadra B.

Su questa base, il fatto che possa nascere un partito politico in cui onestà, intelligenza, capacità siano superiori (nell’insieme e per ogni singolo individuo ne faccia parte) a quelle di un altro è statisticamente poco probabile e credibile solo per fede dogmatica, non razionalmente.
Dunque pensare di essere tra i “perfetti” e dedurre che chi non fa parte del “gruppo dei perfetti” abbia solo e soltanto caratteristiche differenti, è un errore logico.

Capire tutti questo consente di evitare che un partito o una coalizione, quand’anche raggiungesse in libere elezioni percentuali di voto elevatissime, si senta demandata a dovere e potere governare da sola, senza il confronto con gli altri ed imponendo la propria visione.

Il partito di quelli che sono tutti e solo onesti, intelligenti e capaci esiste solo nella testa degli ingenui, dei tiranni e dei massacratori.

sabato 2 giugno 2012

L'invisibile tolleranza

Quando si danno giudizi di grandezza, di unicità, di valore di un'opera, sia essa scientifica o artistica o di qualsiasi altro tipo, c'è sempre il dubbio che la conoscenza del tema non sia sempre sufficientemente estesa, così che appare come assoluta l'importanza di una specifico lavoro solo perché non se ne conoscono altri.

Nel caso in cui si parli di qualcosa che ha a che fare con le conoscenze specifiche relative alla propria professione, questo è ovviamente ben più grave di quando ci si riferisca invece ai propri interessi personali.

Mi avvalgo dunque di questa maggior tolleranza dei lettori quando esprimo le mie osservazioni in questo blog.

Non ho nulla da insegnare, dunque.

Qui racconto solo quello che sto imparando.

martedì 9 agosto 2011

Senza voto.

Sebbene la trasposizione cinematografica fosse largamente romanzata, chiunque abbia visto "A Beautiful Mind" ha almeno potuto farsi un'idea di chi sia John Nash.
Per chi non lo avesse visto, diciamo che John Nash è uno dei più importanti matematici che il '900 abbia conosciuto (e ce ne sono stati davvero parecchi di eccezionali). 

Nato nel 1928, già da giovanissimo fece grandissime cose, tanto che il Nobel che gli fu assegnato nel 1994 era dovuto a teorie che egli aveva formalizzato mentre era ancora studente universitario.
Non esiste il Nobel per la matematica e quello che gli fu assegnato fu per l'Economia, in quanto le sue scoperte matematiche sono usate per lo studio di certi fenomeni economici di cui ora non merita parlare.

Nel 1959 venne colpito da disturbi mentali di una certa consistenza e fu più volte ricoverato. Non è facile spiegare in cosa consistessero questi problemi ma, come dice lui, li potremmo definire schizofrenia paranoica, sebbene in una forma particolarmente specifica.

La cosa che mi interessa sottolineare è la totale concentrazione che persone come Nash riescono a mantenere per anni interi su un singolo argomento.

Come altri, anch'egli si è dedicato solo ed esclusivamente alla sua fondamentale passione (la matematica, in questo caso) con l'obiettivo di spingere il suo pensiero sempre più avanti ed indagando molti fenomeni della vita quotidiana, ma sempre con lo stesso focus.

Mi ha sempre molto colpito che persone così vengano ammirate per ciò che scoprono o per la celebrità che raggiungono quando viene loro assegnato un premio, ma se questa celebrità o innovazione non arriva, le persone, diciamo così, monotematiche vengono normalmente ritenute di minor valore rispetto a coloro che trovano nella vita mille interessi.

Ancora una volta, l'accettazione sociale sembra andare verso il "molto" invece che verso l'"unico", come se avere una passione od un interesse totalizzante fosse un insuperabile aspetto negativo di un essere umano.

Quando invece si guarda questo fenomeno da più distante, allora si scopre che praticamente tutto quello che oggi la scienza ci ha portato a conoscere nasce da questa fenomenale monomaniacalità.
E lo stesso vale per molte forme d'arte, che sembrano poter raggiungere il loro apice solo in persone che dedicano la propria vita ad essa in forma assoluta e monacale.

La cosa vale anche per gli atleti: se prendete la vita di un nuotatore con mire olimpiche, vi posso assicurare per diretta esperienza che spazi per interessi diversi dalla loro attività sportiva non esistono.
E cose simili accadono a chi vuole dedicarsi alla danza o all'alpinismo o a esperienze fisiche che "i normali" considerano proprie di menti malate e di persone ben poco interessanti.

Diversamente da chi la pensa in quel modo, io sono da sempre molto attratto da queste forme eremitiche di vita, tanto più quando sono proprie di persone che poi hanno una vita per altri aspetti normale.

Addirittura John Nash, nella pagina biografica che scrisse in occasione del Nobel, sostiene che le persone che manifestano certi disturbi mentali (e spesso la monomaniacalità viene considerata tra questi) dovrebbero essere poste dalla società nelle migliori condizioni per poter investire completamente il loro io nella ricerca. 
Sostiene anche che nel suo caso, la "guarigione" ha comportato una riduzione delle sue facoltà di penetrazione mentale dei problemi.

Avremmo avuto Bach o Darwin o Messner o i coniugi Curie se queste persone avessero avuto mille interessi, anziché concentrarsi per lunghi anni della loro vita sulla loro singola volontà?

Ma questo discorso su cosa sia buono o meno, troppo vicino al limite della malattia mentale, se sia meglio interessarsi di mille cose o di una sola è davvero una trappola gigantesca, quasi che ogni difetto che cerchiamo nelle vite altrui si rifletta immediatamente ed in senso contrario nella nostra.

Per finire, un'ultima nota si John Nash: guardate la homepage di John Nash nel sito dell'Università di Princeton

Conoscete qualcosa di più modesto?

Sembra davvero che più lontano si va con il pensiero, più ci si avvicini alla settima asserzione del Tractatus di Wittgenstein (che nemmeno voleva pubblicarla, quell'opera grandiosa),  o al "Hypotheses non fingo" di Newton, casualmente due esseri assolutamente maniacali e monacali

Forse una vita senza giudizi sulle scelte altrui (scelte che non ledano diritti di terzi, ben s'intende) sarebbe migliore per chi la vive.


lunedì 8 agosto 2011

Dove si parte da uno, appare uno spettro e poi Al & Al lasciano una briciola...


E' oggettivo che chi esegue una musica che ha composto, e più ancora se questa è accompagnata da un testo, mostra capacità che un semplice interprete non ha.
Forse per questo siamo spinti a pensare ad un valore diverso e maggiore di chi compone rispetto a chi esegue.

Credo di aver creduto questo davvero fino a pochissimo tempo fa. E quando mi capitava di sentire una versione nuova di una canzone già nota, anche se migliore di quella dell'esecuzione data dall'autore stesso, comunque mi pareva più facile "interpretare" che "comporre".

Poi ho cominciato ad ascoltare Johnny Cash e ho cambiato idea. Adesso so che un grande interprete può farti capire un brano meglio, e forse oltre, l'intenzione dell'autore.

Così, presa coscienza di questa cosa, mi sono reso conto della enorme grandezza che c'è in chi riesce a spiegare un significato recondito con la semplice "lettura" di suoni e parole già scritte e vincolanti.

Siccome non ho questa capacità, vediamo se riesco a spiegarmi usando altre parole ed il tempo di chi mi legge.

L'autore scrive un brano (musica e testo) ben sapendo cosa intende dire, cosa vuole trasmettere. Nel farlo, può usare tutte le conoscenze che ha sia di composizione musicale sia di tecnica letteraria.
Ha davanti il rigo musicale ed un foglio bianco ed inizialmente nulla gli è precluso.
Prende il suo "messaggio" e gli dà la forma che crede più opportuna, scegliendo "a piacere" quanto vuole che il messaggio sia chiaro e comprensibile.
Soprattutto se la sua poetica è già nota al pubblico, chi ascolta interpreterà il messaggio con tanta maggiore precisione quanto più conosce (e magari ammira) l'autore.
Il "codice interpretativo" tra ascoltatore ed autore è noto ad entrambi, e tanto più se l'autore è anche interprete del brano.

Ecco un esempio, con una canzone fatta bene e conosciuta: "One" degli U2

Quando invece il brano è interpretato da altri, tutta la libertà di cui l'autore ha goduto si traduce in vincoli per l'esecutore: quelle sono le parole, quella la musica.
Ovviamente gli resta qualche spazio di manovra: la tonalità, il tempo ecc. ecc.

Se è bravo, riuscirà a comunicare quanto e forse meglio dell'interprete originale, cioè l'autore.
E questo possono farlo in molti.

Ma alcuni riescono a fare di più: riescono a comunicare un "messaggio" diverso da quello originale.

Continuiamo nell'esempio: questa è la stessa "One" interpretata da Johnny Cash

Un altro buon esempio chiarificatore si può avere prendendo un caso del tutto opposto, in cui l'interprete banalizza e riduce il senso del brano rispetto alla versione dell'autore: capita, ad esempio, con Celentano e Paolo Conte...
Questa è "Azzurro", interpretata a mo' di filastrocca da Celentano, dove c'è un omino che attende il ritorno della moglie dalle vacanze e tutto finisce lì; 
questa invece è la versione di Conte dove prende forma il dramma di quest'uomo, spezzato tra nostalgia, presente e futuro, tra solitudine, attesa e desiderio di un'altra vita ("... ma il treno dei desideri nei miei pensieri all'incontrario va..")

Dato per scontato che abbiate percepito la differenza sostanziale tra le due versioni di "One" e di "Azzurro" (ma se non vi è capitato, va bene lo stesso), il fenomeno si presta a osservazioni che reputo interessanti.

La prima osservazione è che il "nuovo messaggio" è stato trasmesso con un diverso "codice interpretativo", dato dalla diversa tecnica, ad esempio, di Cash rispetto a quella degli U2... e fino a qua ci siamo.

Adesso vi invito a spiegare con parole vostre i diversi significati delle due versioni che avete ascoltato (di una o dell'altra canzone). Vi ci vorranno frasi e frasi.

Cash (così come la Piaf, Caetano Veloso, Maria Callas e altri grandissimi) ci riesce invece senza aggiungere una sola parola al testo originale. Si potrebbe dire che può farlo attraverso il cambiamento di alcuni parametri musicali, ma non è così, poichè allora basterebbe applicare una tecnica e chiunque riuscirebbe a farlo.

Ma il fantasma che vi si presenta dinnanzi quando la Lucia di Lammermoor della Callas entra nel delirio è altro dalle parole di Cammarano, dalla musica di Donizetti e da abili giochi vocali...

Dunque cos'è che riesce a far passare un nuovo messaggio attraverso parole che abbiamo sentito mille volte?

Sapete che in questo blog ci sono più domande che risposte...

Per intanto, io ritengo che abbia a che fare con quella cosa che chiamiamo "intelligenza" e due signori ci hanno lasciato una traccia per capirne di più.

Forse, sempre forse.

domenica 24 luglio 2011

Zombie

Questo blog ha delle regole, ma siccome le ho fatte io e servono soprattutto a non dare un senso all'ordine di pubblicazione dei post, questa volta ne faccio a meno.

Ieri è morta Amy Winehouse, cantante inglese oggettivamente dotata di enorme talento, piena di successo e ricchezza. Con ogni probabilità è morta per l'uso costante di droga, così come era prevedibile, vista la sua storia personale.

Questa morte ha fatto scaturire su Internet una marea di commenti e molti tra essi ben segnalano certi atteggiamenti del tutto illogici che sono però largamente diffusi e così dati per sensati.

Ecco un classico: "Era giovane, piena di talento e successo, quindi anche ricca. Se è morta, se lo è meritata, avendo buttato via tutto questo. Se si drogava perchè era infelice è perché non si è resa conto di quanto fosse fortunata e privilegiata."

Appare logico affermare che il mix gioventù/talento/successo/denaro è, per chi scrive cose del genere, la ricetta base della felicità. Con quei quattro componenti la felicità è assicurata e se chi li possiede non se ne rende conto merita di morire. Punto.

Fosse vero, allora la felicità sarebbe preclusa a chi non disponesse degli ingredienti citati: se hai 70 anni, non hai un talento ragguardevole, non sei in televisione e non hai qualche milione di euro la felicità scordatela, affermano con assoluta ed implicita fermezza.

Dunque se sei un nonno, con alle spalle una storia di normale lavoro, vivi della tua pensione e pensi di essere felice mentre, ad esempio, ti coccoli il tuo nipotino sulle ginocchia, non hai capito nulla della vita.

Già questo dice quanto i valori di riferimento di tante persone siano del tutto illogici (lasciando perdere i concetti di "giusto" e "sbagliato").

Ma c'è di più.

Questi censori, questi detentori della assoluta certezza su chi meriti di morire e chi di sopravvivere, spesso pieni di umana compassione per i bimbi africani (sempre che se ne stiano dal lato giusto del Mediterraneo, ben si intende), non perdonano assolutamente chi non riesce a trovare la felicità disponendo di consistenti mezzi e accluse proprietà.

Chiedono la morte, o nel miglior caso non ne provano pietà, per tutti coloro che non riescono a dirsi felici pur essendo ricolmi di quelli che sono i loro (dei censori) reali valori.

Si può ragionevolmente dubitare che auspicherebbero la fine anche di chi, cucinata la ricetta già descritta e ottenuta la felicità, se ne facesse spavaldo: in quel caso, la morte sarebbe a parer loro meritata per mancanza di umiltà del felice.
Per sopravvivere, quella persona dovrebbe dunque essere felice ma non dirlo a nessuno, badando al contempo a non apparire infelice, sia ben chiaro.

La lista dei condannati a morte si allunga: a chi ha i mezzi, ma non la felicità, va aggiunto chi ha i mezzi, la felicità e non l'umiltà di dissimularla.

Quand'anche esistesse una persona felice ed attentamente proba, ancora non basterebbe.
I solerti giudici di vite altrui tirerebbero allora fuori l'asso dalla manica: la fortuna.

Già, perchè avendo gioventù/talento/successo/denaro appare chiaro che si è stati fortunati. E la fortuna quella no, quella non si può perdonare proprio. Chi è portatore di tutto questo fardello (gioventù/talento/successo/denaro ed implicita fortuna) merita la morte immediata, lunga e dolorosa.

E' infatti chiaro, nelle loro menti, che la fortuna è una sostanza impalpabile, non misurabile ma certamente disponibile in quantità finita e chi ne ha di più l'ha quindi sottratta ad altri. Intanto ai bimbi africani e, in subordine ma non tanto, sicuramente ai nostri implacabili saggi.

Sì, perchè a sentirli sono loro, i carnefici, le vere vittime: appena bevono un bicchiere di vino sono pronti a raccontarti di quella volta che, se fosse andata diversamente, avrebbero finalmente potuto far felicità del loro innato talento, divenendo così famosi, quindi ricchi e infine persino giovani.

Ma la morte viene per tutti e non fa la morale a nessuno. Non ha niente a che vedere con il merito.
Invece la condanna a morte (anticipata o postuma, come nel caso di specie) quella sì ha a che fare con i nostri giudizi e davvero sarebbe meglio eliminarla dalle umane convinzioni e convenzioni. Una volta per tutte.

Credo che l'ostinazione di certe persone nel reclamare al fato (o a Dio, ché spesso si tratta di fervidi credenti) la morte altrui sia solo lo specchio della morte loro, che li divora da vivi con non minore ferocia.

Condanna che non si meritano, nemmeno loro, umani tra gli umani, deboli tra i deboli e di tale debolezza così tremanti da farsi forti con chi è più debole di loro, sia famosa e deceduta stella della musica sia incauto bimbo affamato sceso dal barcone libico.

lunedì 18 luglio 2011

Diavolo d'un traduttore!!!

Ho sempre pensato che la traduzione linguistica sia uno delle aree in cui l'uso dell'intelligenza umana può davvero spingersi molto avanti.

Come chiunque si sia divertito a provarci ben sa, tradurre sta al dizionario come ricercare sta alla matematica.

Trovare il corrispettivo in un'altra lingua di una certa parola è infatti il primo passaggio di un'operazione ben più lunga e affascinante, quella di trasmettere un significato attraverso codici diversi.

Tradurre è quindi interpretare. L'interpretazione richiede un attore, ed a quell'attore si richiede non solo di conoscere le due lingue in questione, ma di "essere" (o meglio di "diventare") l'originale estensore di quel testo. Capire "ciò che l'autore intendeva dire", con tutti i colori ed i sapori che egli aveva saputo e voluto mettere nella sua frase scritta.

Esistono traduttori così bravi che riescono talvolta a migliorare la comprensibilità di un testo, nel senso di renderlo talmente affine alla sensibilità del lettore da trasferire ad esso "ciò che l'autore intendeva dire" in maniera ancora migliore di quanto l'autore stesso non fosse stato capace.

Le cose si complicano, diventando ancora più intellettualmente divertenti, quando si mette di mezzo un personaggio. Quando cioè l'opinione dell'autore arriva già mediata da un'altra figura.
A questo punto è infatti necessario che l'interprete aggiunga, diciam così, un ulteriore "filtro" la cui limpidezza è pari alla capacità del traduttore di immedesimarsi nel personaggio, cioè di intenderne il pensiero, la volontà e l'agire.

Date queste basi, esistono testi virtualmente intraducibili.

Ad esempio, quando il personaggio letterario non è umano. Interpretare il pensiero marziano è oggettivamente impossibile per la mancanza di termini di paragone (non abbiamo sufficiente frequentazione con gli abitanti di quel pianeta).

In altri casi, il personaggio non umano è derivante da matrici culturali ben note al traduttore. Ad esempio, il diavolo.
Se il testo che si vuol tradurre si colloca nell'ambito della cultura "popolare" occidentale, influenzata dal cristianesimo, il traduttore ha ben presente quale possa essere, in senso lato, l'insieme di caratteristiche che autore e lettore condividono rispetto al soggetto "diavolo".

Tutto salta quando queste "caratteristiche culturalmente condivise" non vengono rispettate dall'autore.
E' traducibile un testo in cui il diavolo parli in prima persona e riveli aspetti suoi propri difformi dal comune sentire (ovvero contrarie ai preconcetti che si hanno sul personaggio "diavolo")?

Se non vi siete annoiati fino a qui, vi meritate una pausa musicale:

clicca qui

e qualcosa da tradurre

divertiti!

e infine un consiglio: quella di "Il Maestro e Margherita" è una falsa pista...

Non fidatevi del diavolo ed abbiatene pietà: è solo un traduttore.

giovedì 30 giugno 2011

"Di" rovescio.

Nella speranza che si possa vivere un po' meglio in questa vita e su questo pianeta, credo sarebbe opportuno mettersi d'accordo su poche cose basilari.
Ed evitare errori di fondo che, per quanto condivisi e nati da semplici questioni di comunicazione, restano tali e portano danni incommensurabili.

Ad esempio la parola "diritti" non dovrebbe mai essere seguita da preposizioni come "di", "dei", "delle" ecc. ecc.

Sarebbe ora di convincersi definitivamente che non esistono i "diritti delle donne" o quelli "dei lavoratori" o "degli omosessuali". I diritti esistono e basta e, quando esistono, non sono limitati a questo o quel soggetto, ma, al più allo "stato" di quel soggetto..
Definendoli come "diritti di", essi possono essere facilmente confusi (soprattutto se qualcuno ha la volontà di crearla, questa contrapposizione) come diritti "opposti" a quelli di un altro (persona, genere, gruppo che sia).

Ma un diritto non è mai l'opposto di un altro diritto.
L'opposto di un diritto è la negazione di quel diritto. E basta.

E, nella vita, noi non siamo solo "una" delle categorie attualmente accreditate di "diritti di": in un solo attimo, ognuno di noi può diventare titolare di un "diritto del malato" al primo colpo d'aria o, per una banalissima storta al piede, di un "diritto del portatore di handicap". Sceso dall'auto, il soggetto del "diritto dell'automobilista" assurge a titolare di un "diritto del pedone".

Il diritto non può essere "relativo", tanto quanto non può essere "assoluto": ogni diritto comprende il suo limite intrinseco, altrimenti non è un diritto, ma la negazione di un diritto diverso.

Insomma, ogni volta che si parla di "diritto" ognuno dovrebbe prendere coscienza che quello è un "suo" diritto, a qualsiasi condizione umana esso si riferisca.