martedì 9 agosto 2011

Senza voto.

Sebbene la trasposizione cinematografica fosse largamente romanzata, chiunque abbia visto "A Beautiful Mind" ha almeno potuto farsi un'idea di chi sia John Nash.
Per chi non lo avesse visto, diciamo che John Nash è uno dei più importanti matematici che il '900 abbia conosciuto (e ce ne sono stati davvero parecchi di eccezionali). 

Nato nel 1928, già da giovanissimo fece grandissime cose, tanto che il Nobel che gli fu assegnato nel 1994 era dovuto a teorie che egli aveva formalizzato mentre era ancora studente universitario.
Non esiste il Nobel per la matematica e quello che gli fu assegnato fu per l'Economia, in quanto le sue scoperte matematiche sono usate per lo studio di certi fenomeni economici di cui ora non merita parlare.

Nel 1959 venne colpito da disturbi mentali di una certa consistenza e fu più volte ricoverato. Non è facile spiegare in cosa consistessero questi problemi ma, come dice lui, li potremmo definire schizofrenia paranoica, sebbene in una forma particolarmente specifica.

La cosa che mi interessa sottolineare è la totale concentrazione che persone come Nash riescono a mantenere per anni interi su un singolo argomento.

Come altri, anch'egli si è dedicato solo ed esclusivamente alla sua fondamentale passione (la matematica, in questo caso) con l'obiettivo di spingere il suo pensiero sempre più avanti ed indagando molti fenomeni della vita quotidiana, ma sempre con lo stesso focus.

Mi ha sempre molto colpito che persone così vengano ammirate per ciò che scoprono o per la celebrità che raggiungono quando viene loro assegnato un premio, ma se questa celebrità o innovazione non arriva, le persone, diciamo così, monotematiche vengono normalmente ritenute di minor valore rispetto a coloro che trovano nella vita mille interessi.

Ancora una volta, l'accettazione sociale sembra andare verso il "molto" invece che verso l'"unico", come se avere una passione od un interesse totalizzante fosse un insuperabile aspetto negativo di un essere umano.

Quando invece si guarda questo fenomeno da più distante, allora si scopre che praticamente tutto quello che oggi la scienza ci ha portato a conoscere nasce da questa fenomenale monomaniacalità.
E lo stesso vale per molte forme d'arte, che sembrano poter raggiungere il loro apice solo in persone che dedicano la propria vita ad essa in forma assoluta e monacale.

La cosa vale anche per gli atleti: se prendete la vita di un nuotatore con mire olimpiche, vi posso assicurare per diretta esperienza che spazi per interessi diversi dalla loro attività sportiva non esistono.
E cose simili accadono a chi vuole dedicarsi alla danza o all'alpinismo o a esperienze fisiche che "i normali" considerano proprie di menti malate e di persone ben poco interessanti.

Diversamente da chi la pensa in quel modo, io sono da sempre molto attratto da queste forme eremitiche di vita, tanto più quando sono proprie di persone che poi hanno una vita per altri aspetti normale.

Addirittura John Nash, nella pagina biografica che scrisse in occasione del Nobel, sostiene che le persone che manifestano certi disturbi mentali (e spesso la monomaniacalità viene considerata tra questi) dovrebbero essere poste dalla società nelle migliori condizioni per poter investire completamente il loro io nella ricerca. 
Sostiene anche che nel suo caso, la "guarigione" ha comportato una riduzione delle sue facoltà di penetrazione mentale dei problemi.

Avremmo avuto Bach o Darwin o Messner o i coniugi Curie se queste persone avessero avuto mille interessi, anziché concentrarsi per lunghi anni della loro vita sulla loro singola volontà?

Ma questo discorso su cosa sia buono o meno, troppo vicino al limite della malattia mentale, se sia meglio interessarsi di mille cose o di una sola è davvero una trappola gigantesca, quasi che ogni difetto che cerchiamo nelle vite altrui si rifletta immediatamente ed in senso contrario nella nostra.

Per finire, un'ultima nota si John Nash: guardate la homepage di John Nash nel sito dell'Università di Princeton

Conoscete qualcosa di più modesto?

Sembra davvero che più lontano si va con il pensiero, più ci si avvicini alla settima asserzione del Tractatus di Wittgenstein (che nemmeno voleva pubblicarla, quell'opera grandiosa),  o al "Hypotheses non fingo" di Newton, casualmente due esseri assolutamente maniacali e monacali

Forse una vita senza giudizi sulle scelte altrui (scelte che non ledano diritti di terzi, ben s'intende) sarebbe migliore per chi la vive.


lunedì 8 agosto 2011

Dove si parte da uno, appare uno spettro e poi Al & Al lasciano una briciola...


E' oggettivo che chi esegue una musica che ha composto, e più ancora se questa è accompagnata da un testo, mostra capacità che un semplice interprete non ha.
Forse per questo siamo spinti a pensare ad un valore diverso e maggiore di chi compone rispetto a chi esegue.

Credo di aver creduto questo davvero fino a pochissimo tempo fa. E quando mi capitava di sentire una versione nuova di una canzone già nota, anche se migliore di quella dell'esecuzione data dall'autore stesso, comunque mi pareva più facile "interpretare" che "comporre".

Poi ho cominciato ad ascoltare Johnny Cash e ho cambiato idea. Adesso so che un grande interprete può farti capire un brano meglio, e forse oltre, l'intenzione dell'autore.

Così, presa coscienza di questa cosa, mi sono reso conto della enorme grandezza che c'è in chi riesce a spiegare un significato recondito con la semplice "lettura" di suoni e parole già scritte e vincolanti.

Siccome non ho questa capacità, vediamo se riesco a spiegarmi usando altre parole ed il tempo di chi mi legge.

L'autore scrive un brano (musica e testo) ben sapendo cosa intende dire, cosa vuole trasmettere. Nel farlo, può usare tutte le conoscenze che ha sia di composizione musicale sia di tecnica letteraria.
Ha davanti il rigo musicale ed un foglio bianco ed inizialmente nulla gli è precluso.
Prende il suo "messaggio" e gli dà la forma che crede più opportuna, scegliendo "a piacere" quanto vuole che il messaggio sia chiaro e comprensibile.
Soprattutto se la sua poetica è già nota al pubblico, chi ascolta interpreterà il messaggio con tanta maggiore precisione quanto più conosce (e magari ammira) l'autore.
Il "codice interpretativo" tra ascoltatore ed autore è noto ad entrambi, e tanto più se l'autore è anche interprete del brano.

Ecco un esempio, con una canzone fatta bene e conosciuta: "One" degli U2

Quando invece il brano è interpretato da altri, tutta la libertà di cui l'autore ha goduto si traduce in vincoli per l'esecutore: quelle sono le parole, quella la musica.
Ovviamente gli resta qualche spazio di manovra: la tonalità, il tempo ecc. ecc.

Se è bravo, riuscirà a comunicare quanto e forse meglio dell'interprete originale, cioè l'autore.
E questo possono farlo in molti.

Ma alcuni riescono a fare di più: riescono a comunicare un "messaggio" diverso da quello originale.

Continuiamo nell'esempio: questa è la stessa "One" interpretata da Johnny Cash

Un altro buon esempio chiarificatore si può avere prendendo un caso del tutto opposto, in cui l'interprete banalizza e riduce il senso del brano rispetto alla versione dell'autore: capita, ad esempio, con Celentano e Paolo Conte...
Questa è "Azzurro", interpretata a mo' di filastrocca da Celentano, dove c'è un omino che attende il ritorno della moglie dalle vacanze e tutto finisce lì; 
questa invece è la versione di Conte dove prende forma il dramma di quest'uomo, spezzato tra nostalgia, presente e futuro, tra solitudine, attesa e desiderio di un'altra vita ("... ma il treno dei desideri nei miei pensieri all'incontrario va..")

Dato per scontato che abbiate percepito la differenza sostanziale tra le due versioni di "One" e di "Azzurro" (ma se non vi è capitato, va bene lo stesso), il fenomeno si presta a osservazioni che reputo interessanti.

La prima osservazione è che il "nuovo messaggio" è stato trasmesso con un diverso "codice interpretativo", dato dalla diversa tecnica, ad esempio, di Cash rispetto a quella degli U2... e fino a qua ci siamo.

Adesso vi invito a spiegare con parole vostre i diversi significati delle due versioni che avete ascoltato (di una o dell'altra canzone). Vi ci vorranno frasi e frasi.

Cash (così come la Piaf, Caetano Veloso, Maria Callas e altri grandissimi) ci riesce invece senza aggiungere una sola parola al testo originale. Si potrebbe dire che può farlo attraverso il cambiamento di alcuni parametri musicali, ma non è così, poichè allora basterebbe applicare una tecnica e chiunque riuscirebbe a farlo.

Ma il fantasma che vi si presenta dinnanzi quando la Lucia di Lammermoor della Callas entra nel delirio è altro dalle parole di Cammarano, dalla musica di Donizetti e da abili giochi vocali...

Dunque cos'è che riesce a far passare un nuovo messaggio attraverso parole che abbiamo sentito mille volte?

Sapete che in questo blog ci sono più domande che risposte...

Per intanto, io ritengo che abbia a che fare con quella cosa che chiamiamo "intelligenza" e due signori ci hanno lasciato una traccia per capirne di più.

Forse, sempre forse.

domenica 24 luglio 2011

Zombie

Questo blog ha delle regole, ma siccome le ho fatte io e servono soprattutto a non dare un senso all'ordine di pubblicazione dei post, questa volta ne faccio a meno.

Ieri è morta Amy Winehouse, cantante inglese oggettivamente dotata di enorme talento, piena di successo e ricchezza. Con ogni probabilità è morta per l'uso costante di droga, così come era prevedibile, vista la sua storia personale.

Questa morte ha fatto scaturire su Internet una marea di commenti e molti tra essi ben segnalano certi atteggiamenti del tutto illogici che sono però largamente diffusi e così dati per sensati.

Ecco un classico: "Era giovane, piena di talento e successo, quindi anche ricca. Se è morta, se lo è meritata, avendo buttato via tutto questo. Se si drogava perchè era infelice è perché non si è resa conto di quanto fosse fortunata e privilegiata."

Appare logico affermare che il mix gioventù/talento/successo/denaro è, per chi scrive cose del genere, la ricetta base della felicità. Con quei quattro componenti la felicità è assicurata e se chi li possiede non se ne rende conto merita di morire. Punto.

Fosse vero, allora la felicità sarebbe preclusa a chi non disponesse degli ingredienti citati: se hai 70 anni, non hai un talento ragguardevole, non sei in televisione e non hai qualche milione di euro la felicità scordatela, affermano con assoluta ed implicita fermezza.

Dunque se sei un nonno, con alle spalle una storia di normale lavoro, vivi della tua pensione e pensi di essere felice mentre, ad esempio, ti coccoli il tuo nipotino sulle ginocchia, non hai capito nulla della vita.

Già questo dice quanto i valori di riferimento di tante persone siano del tutto illogici (lasciando perdere i concetti di "giusto" e "sbagliato").

Ma c'è di più.

Questi censori, questi detentori della assoluta certezza su chi meriti di morire e chi di sopravvivere, spesso pieni di umana compassione per i bimbi africani (sempre che se ne stiano dal lato giusto del Mediterraneo, ben si intende), non perdonano assolutamente chi non riesce a trovare la felicità disponendo di consistenti mezzi e accluse proprietà.

Chiedono la morte, o nel miglior caso non ne provano pietà, per tutti coloro che non riescono a dirsi felici pur essendo ricolmi di quelli che sono i loro (dei censori) reali valori.

Si può ragionevolmente dubitare che auspicherebbero la fine anche di chi, cucinata la ricetta già descritta e ottenuta la felicità, se ne facesse spavaldo: in quel caso, la morte sarebbe a parer loro meritata per mancanza di umiltà del felice.
Per sopravvivere, quella persona dovrebbe dunque essere felice ma non dirlo a nessuno, badando al contempo a non apparire infelice, sia ben chiaro.

La lista dei condannati a morte si allunga: a chi ha i mezzi, ma non la felicità, va aggiunto chi ha i mezzi, la felicità e non l'umiltà di dissimularla.

Quand'anche esistesse una persona felice ed attentamente proba, ancora non basterebbe.
I solerti giudici di vite altrui tirerebbero allora fuori l'asso dalla manica: la fortuna.

Già, perchè avendo gioventù/talento/successo/denaro appare chiaro che si è stati fortunati. E la fortuna quella no, quella non si può perdonare proprio. Chi è portatore di tutto questo fardello (gioventù/talento/successo/denaro ed implicita fortuna) merita la morte immediata, lunga e dolorosa.

E' infatti chiaro, nelle loro menti, che la fortuna è una sostanza impalpabile, non misurabile ma certamente disponibile in quantità finita e chi ne ha di più l'ha quindi sottratta ad altri. Intanto ai bimbi africani e, in subordine ma non tanto, sicuramente ai nostri implacabili saggi.

Sì, perchè a sentirli sono loro, i carnefici, le vere vittime: appena bevono un bicchiere di vino sono pronti a raccontarti di quella volta che, se fosse andata diversamente, avrebbero finalmente potuto far felicità del loro innato talento, divenendo così famosi, quindi ricchi e infine persino giovani.

Ma la morte viene per tutti e non fa la morale a nessuno. Non ha niente a che vedere con il merito.
Invece la condanna a morte (anticipata o postuma, come nel caso di specie) quella sì ha a che fare con i nostri giudizi e davvero sarebbe meglio eliminarla dalle umane convinzioni e convenzioni. Una volta per tutte.

Credo che l'ostinazione di certe persone nel reclamare al fato (o a Dio, ché spesso si tratta di fervidi credenti) la morte altrui sia solo lo specchio della morte loro, che li divora da vivi con non minore ferocia.

Condanna che non si meritano, nemmeno loro, umani tra gli umani, deboli tra i deboli e di tale debolezza così tremanti da farsi forti con chi è più debole di loro, sia famosa e deceduta stella della musica sia incauto bimbo affamato sceso dal barcone libico.

lunedì 18 luglio 2011

Diavolo d'un traduttore!!!

Ho sempre pensato che la traduzione linguistica sia uno delle aree in cui l'uso dell'intelligenza umana può davvero spingersi molto avanti.

Come chiunque si sia divertito a provarci ben sa, tradurre sta al dizionario come ricercare sta alla matematica.

Trovare il corrispettivo in un'altra lingua di una certa parola è infatti il primo passaggio di un'operazione ben più lunga e affascinante, quella di trasmettere un significato attraverso codici diversi.

Tradurre è quindi interpretare. L'interpretazione richiede un attore, ed a quell'attore si richiede non solo di conoscere le due lingue in questione, ma di "essere" (o meglio di "diventare") l'originale estensore di quel testo. Capire "ciò che l'autore intendeva dire", con tutti i colori ed i sapori che egli aveva saputo e voluto mettere nella sua frase scritta.

Esistono traduttori così bravi che riescono talvolta a migliorare la comprensibilità di un testo, nel senso di renderlo talmente affine alla sensibilità del lettore da trasferire ad esso "ciò che l'autore intendeva dire" in maniera ancora migliore di quanto l'autore stesso non fosse stato capace.

Le cose si complicano, diventando ancora più intellettualmente divertenti, quando si mette di mezzo un personaggio. Quando cioè l'opinione dell'autore arriva già mediata da un'altra figura.
A questo punto è infatti necessario che l'interprete aggiunga, diciam così, un ulteriore "filtro" la cui limpidezza è pari alla capacità del traduttore di immedesimarsi nel personaggio, cioè di intenderne il pensiero, la volontà e l'agire.

Date queste basi, esistono testi virtualmente intraducibili.

Ad esempio, quando il personaggio letterario non è umano. Interpretare il pensiero marziano è oggettivamente impossibile per la mancanza di termini di paragone (non abbiamo sufficiente frequentazione con gli abitanti di quel pianeta).

In altri casi, il personaggio non umano è derivante da matrici culturali ben note al traduttore. Ad esempio, il diavolo.
Se il testo che si vuol tradurre si colloca nell'ambito della cultura "popolare" occidentale, influenzata dal cristianesimo, il traduttore ha ben presente quale possa essere, in senso lato, l'insieme di caratteristiche che autore e lettore condividono rispetto al soggetto "diavolo".

Tutto salta quando queste "caratteristiche culturalmente condivise" non vengono rispettate dall'autore.
E' traducibile un testo in cui il diavolo parli in prima persona e riveli aspetti suoi propri difformi dal comune sentire (ovvero contrarie ai preconcetti che si hanno sul personaggio "diavolo")?

Se non vi siete annoiati fino a qui, vi meritate una pausa musicale:

clicca qui

e qualcosa da tradurre

divertiti!

e infine un consiglio: quella di "Il Maestro e Margherita" è una falsa pista...

Non fidatevi del diavolo ed abbiatene pietà: è solo un traduttore.

giovedì 30 giugno 2011

"Di" rovescio.

Nella speranza che si possa vivere un po' meglio in questa vita e su questo pianeta, credo sarebbe opportuno mettersi d'accordo su poche cose basilari.
Ed evitare errori di fondo che, per quanto condivisi e nati da semplici questioni di comunicazione, restano tali e portano danni incommensurabili.

Ad esempio la parola "diritti" non dovrebbe mai essere seguita da preposizioni come "di", "dei", "delle" ecc. ecc.

Sarebbe ora di convincersi definitivamente che non esistono i "diritti delle donne" o quelli "dei lavoratori" o "degli omosessuali". I diritti esistono e basta e, quando esistono, non sono limitati a questo o quel soggetto, ma, al più allo "stato" di quel soggetto..
Definendoli come "diritti di", essi possono essere facilmente confusi (soprattutto se qualcuno ha la volontà di crearla, questa contrapposizione) come diritti "opposti" a quelli di un altro (persona, genere, gruppo che sia).

Ma un diritto non è mai l'opposto di un altro diritto.
L'opposto di un diritto è la negazione di quel diritto. E basta.

E, nella vita, noi non siamo solo "una" delle categorie attualmente accreditate di "diritti di": in un solo attimo, ognuno di noi può diventare titolare di un "diritto del malato" al primo colpo d'aria o, per una banalissima storta al piede, di un "diritto del portatore di handicap". Sceso dall'auto, il soggetto del "diritto dell'automobilista" assurge a titolare di un "diritto del pedone".

Il diritto non può essere "relativo", tanto quanto non può essere "assoluto": ogni diritto comprende il suo limite intrinseco, altrimenti non è un diritto, ma la negazione di un diritto diverso.

Insomma, ogni volta che si parla di "diritto" ognuno dovrebbe prendere coscienza che quello è un "suo" diritto, a qualsiasi condizione umana esso si riferisca.

martedì 21 giugno 2011

Il creatore smemorato.


Chi siamo? 
Anzi, meglio, chi è chi?

Secondo la versione italiana di Wikipedia, CHI è innanzitutto l'acronimo di Computer Human Interface (che viene tradotto come "Interfaccia Uomo Macchina").

E' interessante "Interfaccia Uomo Macchina". Innanzitutto perché questa formula sembra mettere alla pari le due entità, l'Uomo e la Macchina. Non uno che usa l'altra e nemmeno il contrario. Dunque l'espressione definisce una relazione esistente, ma di cui non sappiamo altro.

Ed "Interfaccia" non è un vocabolo così chiaro.
Se si continua ad usare Wikipedia, "Interfaccia" può voler dire sia "dispositivo fisico o virtuale che permette la comunicazione fra due o più entità di tipo diverso" sia, in chimica, "la superficie di contatto fra due fasi distinte in una mistura eterogenea".
Ancora un altro passo che, come camminassimo in cerchio, ci riconduce all'inizio: "due o più entità di tipo diverso", così come "mistura eterogenea" danno l'idea un rapporto paritetico tra una entità sull'altra, che a sua volta può (deve?) spingerle addirittura a diventare una cosa sola.

Se diventano una cosa sola, allora non serve l'Interfaccia.

Non è un gioco di parole, a pensarci bene. E nemmeno è il caso di affidarsi a Wikipedia per avere delle definizioni precise.

Chi è chi, dunque?

Esiste un nostro "chi" che possa dirsi indipendente dalle relazioni con qualcosa d'altro? "Cogito ergo sum", senza voler entrare in ambiti filosofici complessi, sembra dirci che possiamo definire il nostro "chi" ovvero "che esistiamo" in base al fatto che pensiamo. Ma potremmo mai farlo da soli, visto che come minimo per definirci abbiamo bisogno di un linguaggio, che a sua volta esiste solo sulla base di una relazione di cui esso è il mezzo?

Un'entità cosciente sorta dal nulla in un pianeta disabitato e vuoto avrebbe un "chi" con cui definirsi?

Se è vero che non riusciamo ad immaginare nulla che non abbiamo già visto, quel tapino non avrebbe nemmeno la consolazione di invertarsi qualcosa fuori di sé... che tristezza essere un Dio senza ricordi sufficienti a cui ispirarsi per creare l'Universo!

martedì 7 giugno 2011

Conseguenze

Assiòma s. m. (pl. -i) Principio evidente per sé, e che per ciò non ha bisogno di essere dimostrato. (Fonte: "Il dizionario della lingua italiana" - G. Devoto, G. C. Oli - Ed. Le Monnier)


Non intendo scrivere post che abbiano a che fare con i fatti del giorno né che gli accadimenti pubblici associabili alla data di pubblicazione dei post  siano percepibili dal lettore.


Per riuscirci, pubblicherò sempre i post giorni dopo averli scritti e così, se qualcosa sembrerà riferirsi al "presente", lo sarà solo perché tale connessione sta nella mente del lettore, così involontariamente coinvolto nel significato di ciò che legge.


Ed a scrivere da soli su un monitor, la mia naturale tendenza all'ammaestramento altrui trova ampie energie per sopraffarmi. Per scampare a questo tranello, ho deciso di pubblicare i post in ordine diverso da quello in cui li scrivo, così che anche le possibili relazioni tra di essi siano costruite dal lettore, casomai. Eviterò così anche la possibilità che i blog abbiano tra loro un rapporto causa-effetto o, peggio, di spiegare uno il contenuto di un altro.


Se tutto ciò ha un senso, ho fatto di tutto per evitare che in senso opposto si tornasse indietro.

lunedì 6 giugno 2011

Chi ricerca, ritrova!

Credo appaia a molti come assolutamente affascinante l'idea che persone vissute migliaia di anni prima di noi siano giunte a conclusioni assai precise sia su fatti che riguardano la psiche umana sia su fenomeni più strettamente scientifici.

Sin da piccolo, mi ha sempre colpito l'idea che i popoli antichi di tutto il mondo avessero una così precisa visione dell'astronomia, tanto da fare calcoli molto complessi su albe, tramonti, inclinazioni solari, eclissi. ecc. ecc.
Avevano mezzi assai semplici, rispetto ad oggi, ma riuscivano comunque a capirci parecchio.
Il loro senso del tempo era così particolare che erano in grado di fare osservazioni stellari che duravano per più generazioni umane, trasmettendosi nel tempo i dati man mano emersi e così riuscendo a calcolare con enorme precisione i movimenti degli astri.

Ovviamente, oggi si è molto più avanti di allora e, benché restino insoluti problemi enormi, le nostre conoscenze su materia e cosmo compiono straordinari passi avanti ogni giorno.

La teoria delle stringhe, dimostrata sul piano matematico ma finora ancora non sufficientemente comprovata sperimentalmente, è una soluzione proposta da alcuni decenni per avvicinarsi alla soluzione del più rilevante problema fisico che oggi ci appare innanzi, l'unificazione delle forze.
Tralascio ogni descrizione dell'una e dell'altra cosa, perché quello che mi preme sottolineare è la grande similitudine tra quanto previsto dalla teoria delle stringhe e quanto descritto dalla cosmogonia vedica (qui trovate qualche riga a riguardo, in una descrizione molto semplificata).

In sintesi, l'Universo (anzi, gli universi) descritti dai Veda ca. 4000 anni fa assomiglia molto a quello previsto dalla teoria delle stringhe. Le somiglianze si estendono all'aspetto, alla modalità di evoluzione e persino a particolari ancora solo scientificamente oggi presagiti, ma già descritti con grande accuratezza nei testi vedici.

Premesso che le similitudini esistono solo in quanto NOI le costruiamo (sulla base delle conoscenze che abbiamo oggi su Universo e Veda, nell'esempio) e quindi un sano senso di distacco è sempre bene tenerlo, nondimeno ritengo sia di grande aiuto tanto nella speculazione filosofica quanto nella ricerca scientifica questa idea che più avanti si va più indietro si ritorna.

Insomma l'idea sempre veleggiata nel pensiero umano che vi sia una "circolarità" nella vita umana (vita, morte, rinascita) quanto nell'universo (inizio, espansione, fine e nuovo inizio) sembra estendersi anche alla conoscenza quando, come in questo caso, essa sembra dapprima espressa nella religione, poi persa nella storia ed ora tornare a noi attraverso la scienza.

giovedì 2 giugno 2011

Sole e polvere

Appaiono talvolta all'orizzonte persone che riescono a sintetizzare nelle loro opere intere cosmogonie, a descrivere magistralmente lo spirito dei loro tempi, arrivando talora a disegnare con assoluta precisione caratteristiche universali.


Lorenzo Da Ponte penso possa ben figurare tra loro.


Senza che dobbiate cliccare sul link, ricordo semplicemente qui che egli fu un grande letterato che visse tra Settecento ed Ottocento e che fu reso celebre in particolare dai testi (quello che nel mondo operistico si chiama "libretto") della trilogia italiana di Mozart (Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte).


Come il raggio solare che, filtrando dal vetro della finestra in una radiosa giornata d'inverno, sottolinea senza riguardo la polvere ancora presente sul pavimento appena pulito, così in queste tre opere la reale natura umana viene così bene illuminata da non concedere che alcuna convenzione sociale sia sufficiente nascondiglio ai suoi limiti.


Sebbene la diretta conoscenza dei testi renderebbe molto più apprezzabile il significato delle singole espressioni, la battuta del Conte ne "Le nozze di Figaro", quando dice "l'onore... dove diamin l'ha posto umano errore!" rende bene da sola l'intransigenza verso tutti quegli "infausti apparati" che la cultura ha costruito intorno alla natura umana.


A volte penso che, a riuscir a mandare a mente l'intera trilogia e ad usarne le battute in maniera debita, essa basterebbe per sostenere qualsiasi conversazione nella vita, tanto è estesa la visione che lì viene data della vita umana, dei suoi fasti, della sua miseria, dei suoi limiti e della sua grandezza.


Ci sarebbe davvero da scriverne moltissimo, e così è accaduto, in effetti.


Sono certo che mi ricapiterà di farlo anche qui. 


Diversamente da coloro che hanno lavorato nei secoli per ridurre a pochi assiomi le fondamenta della scienza, Da Ponte svela i più reconditi pensieri umani sempre mostrandone i perché, aggiungendo domanda a domanda e risposta a risposta, a prova e controprova.
Tanto che il "Così fan tutte" giunge ad essere il racconto di una scommessa tra un vecchio dai "crini già grigi", Don Alfonso (dove "Don" è un titolo onorifico e non curiale) e due baldi giovani (Ferrando e Guglielmo), i quali, forti appunto della loro inesperienza, son pronti a giurare sull'assoluta fedeltà delle loro amate (Dorabella e Fiordiligi), così da giungere a giocarsi cento zecchini contro il loro amico, che invece, con l'aiuto di una serva giovanissima ed astuta (Despina) dimostrerà loro in poche ore quanto presto possa cangiar l'animo umano.


Ed in tutta la commedia non c'è un solo accenno di giudizio morale, tutta l'azione è vista come in un microscopio, dove parole, corpi e spiriti si muovono tra le mani dell'architetto del tranello disvelatore (Don Alfonso), ma in realtà solamente assecondando le più forti energie intime dell'animo.


In questo, Da Ponte non parteggia mai per gli uomini o per le donne, creando continui contrappesi reciproci tra i quattro personaggi "amorosi" e lasciando che gli altri due descrivano man mano con assoluto disincanto sia la più profonda natura umana sia gli orpelli dietro cui si riparano i quattro amanti per sfuggire a quella.


Alla fine si sposeranno, i quattro, perché è appunto parte della ragione umana l'accettazione di quella stessa natura, così malamente ostacolata dalla "nobile educazion".


E se, alla fine di questo mio post, ci avete capito poco o nulla... beh... allora fate quello per cui l'ho scritto: ascoltate anche solo l'inizio del "Così fan tutte".



















sabato 28 maggio 2011

Il cristallo del dubbio

"Ho letto e raccolto costantemente fatti sulla variazione delle piante e degli animali allo stato domestico e sulla questione delle specie: ho ora un vasto complesso di dati e credo di poter tirare alcune fondate conclusioni. La conclusione generale che sono lentamente indotto a trarre partendo da una convizione totalmente opposta è che le specie possono mutare e che specie affini discendono da ceppi comuni. So bene fino a che punto mi espongo al biasimo per una simile conclusione, ma se non altro vi sono giunto onestamente e dopo accurata ponderazione."

Traduzione dalla lettera  di Charles Darwin a L. Jenyns - 12 Ottobre 1845


Quando si pensi alla scienza e se ne voglia afferrare tanto lo splendore quanto la cristallina trasparenza, penso si debba andare a queste righe.

Dentro ad esse si trova tanta umiltà, tanta tenacia, tanta forza e tanto dubbio che penso mai descrizione migliore del termine "scienziato" sia stata data.

Leggere e rileggere quelle parole: Darwin le scrisse nel 1845 e la "conclusione" di cui parla la pubblicherà solo 14 anni dopo. 

14 anni dopo.

Quattordici.

Se le lezioni si danno con l'esempio, davanti a Darwin possiamo davvero e solo inchinarci.

martedì 24 maggio 2011

Distante un giorno


  1. Esiste un numero naturale, 0
  2. Ogni numero naturale ha un numero naturale successore
  3. Numeri diversi hanno successori diversi
  4. 0 non è il successore di alcun numero naturale
  5. Ogni insieme di numeri naturali che contenga lo zero e il successore di ogni proprio elemento coincide con l'intero insieme dei numeri naturali (assioma dell'induzione)

Questi qui sopra sono gli "assiomi di Peano" con cui il matematico torinese definì, appunto in forma assiomatica, l'insieme dei numeri naturali (i numeri interi non negativi, come 0, 1, 2 ecc.), cioè i numeri che siamo abituati ad usare sin dalla più tenera infanzia.

Trovo che riuscire a stabilire così pochi decisivi punti come fondazione della parte più, diciamo così, consueta della matematica sia qualcosa di strepitoso.

Di assiomi ne esistono altri, ovviamente, che fanno riferimento ad altri concetti logici, matematici, ecc.

Alcune delle leggi più importanti della fisica sono riconducibili a formule dall'aspetto semplice ed elegante (le formule non sono sempre assiomi, giusto per chi non avesse mai avuto modo di giocare con i numeri).

Non solo, ma oggi il punto focale della fisica è trovare ciò che unifica le forze base che, sempre banalizzando, tengono insieme l'Universo. 
E' possibile che, raggiunto quel risultato, avremo anche in quel caso una nuova formula elegante come lo è 


E=mc²


Ovvio che "elegante" non è un criterio oggettivo. "Elegante" è qualcosa che riduce a brevissima stringa di caratteri un'idea, una scoperta inversamente complessa rispetto alla formula che la definisce.

Guardando alla storia della scienza, e della fisica in particolare, si può dire che ogni idea che si credeva vera un tempo ha poi subito modifiche sostanziali con il procedere della ricerca. E ciò ci spinge a pensare che le "verità scientifiche" attuali potranno evolvere in futuro.

La semplicità degli assiomi di Peano, così come l'eleganza delle formule di Einstein e di altri, o la semplicità logica dei principi dell'evoluzione così come determinati (e addirittura modificati negli anni dallo stesso autore) da Darwin sembrano dirci che le "verità" più incisive nella nostra cultura sono riconducibili ad una chiarezza esemplare.

Tutto ciò è vero quando l'oggetto osservato è esterno a noi stessi. Come se, addentrandosi nella psiche, tutto prendesse una forma diversa, così complessa e magari disordinata da non essere riconducibile ad assiomi, formule e leggi altrettanto cristalline.

Sembra insomma che descrivere l'Universo (grande e distante) sia più facile che descrivere noi stessi (piccoli e così vicini da rendere osservato ed osservatore indistinguibili tra loro).

Come potrebbe dire qualsiasi musicista, la musica percepita da chi sta suonando è sostanzialmente diversa da quella sentita dall'ascoltatore.

E adesso basta, che ci stiamo avviando verso l'infinito.

Anzi, un infinito numero di infiniti.

sabato 14 maggio 2011

Lo coscienza di Pac-man

Gli amici di filosofiablog.it sono stati così cortesi da inviarmi un paio di link adatti per affrontare la questione posta in "Test per astroincreduli".

Eccoli qui:

http://plato.stanford.edu/entries/brain-vat/
http://www.iep.utm.edu/brainvat/

Non sto a spiegare nulla, visto che sono due testi sufficientemente estesi e chiari che affrontano il tema basandosi su un esempio (il cervello nella vasca) che ha forti similitudini con l'idea del videogioco.

Ma ci sono anche grandi differenze, a parer mio, nei due diversi casi: in uno tutto si svolge dentro al cervello, nell'altro ci sono attività fisiche guidate dal cervello. Per quanto immersi in un contesto che, per comodità, possiamo continuare a pensare "irreale", quale il videogame, esistono gesti fatti verso l'esterno dell'essere pensante protagonista (noi stessi). E non è poco.

L'altra sera ho avuto un lungo dialogo con il mio miglior amico su cosa porterebbe l'avere certa coscienza della nostra, diciamo così, "immersione" nel videogame. E' apparso ovvio che se tutto ciò che vediamo intorno a  noi, persone incluse, fosse solo un ammasso di pixel allora molti aspetti della nostra morale potrebbero subire revisioni pesantissime.
Chiunque abbia giocato a Pac-man non ha certo vissuto alcun senso di colpa nel "mangiare" gli avversari del mostricciatolo boccuto comandato dal joystick. Ergo se QUESTO mondo fosse un livello qualsiasi di un gioco analogo, della morte nostra o altrui potrebbe importarci assai poco.

Trovate terribile la cosa?

Beh, c'è di peggio.

Noi pensiamo ai pixel perché i videogiochi che noi conosciamo sono basati appunto su computer, programmi e pixel. Ma in futuro potremmo essere in grado di produrre cose analoghe con tecnologie completamente diverse. Potremmo giungere a manipolare gli elementi, i batteri, le entità minime di vita terrestre esattamente come oggi manovriamo bit e pixel.

Pixel e cellule, secondo questa visione, sono assimilabili. Differente la tecnologia, simile l'effetto, uguale il valore intrinseco. Il valore. Qualsiasi valore esso sia.

Dunque, se ora non ci dà nessuna sensazione negativa né senso di colpa "uccidere" un essere fatto di bit e pixel, forse in futuro proveremo la stessa serenità giocosa nell'eliminare personaggi del gioco fatti di cellule.

Nella nostra vita però siamo abbastanza saggi da non considerare gli esseri umani (e anche altri tipi di entità e anche solo certi tipi di esseri umani) come una massa di cellule, atomi, quark.

Ma se qualcuno avesse i mezzi per costruire NUOVE entità viventi (magari anche pensanti e soggetti ad emozioni e sentimenti) la nostra ritrosia nel far loro del male si manterrebbe nella nostra coscienza? Se ci venisse spiegato ogni giorno che quelle entità sono un frutto, anzi un prodotto, della nostra stessa tecnologia, davvero sapremmo metterle sullo stesso nostro piano e non infierire su di loro?

Ed in cosa sono NUOVE? Sono nuove perché non c'erano prima, si dirà. "Non c'erano" sta a significare che "non esistevano", ma per estensione che "non ne sapevamo dell'esistenza" o che "non interagivamo con loro", tipo gli indios sudamericani dopo le scoperte geografiche europee tra XV e XVI secolo.
Che sono stati sterminati, pac-man like.

Una volta anche gli immigrati non c'erano, non esistevano, non ne sapevamo l'esistenza (stavano a casa loro e quindi non erano emigranti né immigrati) e non interagivamo con loro.

I limiti della coscienza del male sembrano distruggersi facilmente quando li applichiamo ad entità di cui non conosciamo l'origine, che non riconosciamo come pre-esistenti a noi stessi ed al nostro ambiente.

E' nella nostra esperienza umana, e ben prima che nel ragionamento filosofico, che noi riusciamo ad inviduare altri esseri senzienti come "altro da noi", come ammasso di cellule, come pixel colorati sul televisore che ci mostra gli sbarchi.

sabato 7 maggio 2011

Test per astroincreduli

A cento anni da oggi, con una potenza di calcolo immensa, un metodo di programmazione adatto, ispirandosi alla vita per come la conosciamo su questo pianeta (e magari quel giorno ne conosceremo anche altre) e basando il tutto sulle regole della fisica, che razza di videogiochi potremmo inventare?

Magari si potrebbe inventare un gioco che si chiama "Cosmo".
Naturalmente il realismo del tutto sarebbe pari alla potenza di calcolo già citata. Tutto inventato, ma tutto reale insomma.

Reale soprattutto per i personaggi del videogame.

Ai "terrestri" potremmo dare una serie di regole base su cui basare le loro reazioni all'ambiente attorno.

Poi un sistema che desse un valore numerico diverso ad ognuna di quelle regole man mano che il gioco va avanti, lasciando poi al personaggio una "variabile aperta", diciamo così, che chiameremo "libero arbitrio" e che sarà un valore in grado di incidere sul successivo comportamento dell'omino.

Finiamola qui, tanto chi legge ci è già arrivato.

C'è chi pensa che GIA' noi viviamo in un videogioco ed ha pensato che per provarlo si potrebbe cercare "il pixel" cioè l'unità-immagine minima. Se esiste, secondo queste persone, si proverebbe che questo universo E' un videogame.

Detto che, a parer mio, anche trovando "il pixel" non si dimostrerebbe niente altro che la sua esistenza e che questo, in senso logico, non dimostra affatto che noi si viva dentro un giochino, altri aspetti di questa cosa mi incuriosiscono.

E poi la domanda vera: come Cartesio prima e Turing poi (e altri dopo) hanno pensato a test che rivelino la possibile intelligenza di una macchina, quale test si potrebbe inventare per stabilire se viviamo o no dentro un videogame?

Il gioco si fa difficilissimo, anche perché noi (e anche l'omino lo sarà) siamo DENTRO il sistema di riferimento.

giovedì 5 maggio 2011

T(o)uring Can Make You Crazy



Se si può usare l'aggettivo "originale" vicino al sostantivo "pensiero" ed intendendo tale espressione come "fuori dall'ordinario" più che come "nuovo", allora mi sembra che molti "pensatori originali", sia del passato che del presente, condividano alcuni interessi, idee, punti di contatto.


Oppure sta in chi li ascolta e legge inventarseli.


Alan Turing era un genio che, al di là di una certa popolarità tra gli specialisti, non ha avuto il riconoscimento che meritava. Come logico, per quello che ha pensato ed inventato, e come persona, per la sorte che ha subito a causa della sua omosessualità.


Frank Zappa è un nome sicuramente più conosciuto. Persona di enorme talento musicale, tendenzialmente monomaniaca, ogni tanto esprime nella sua musica anche interessi inattesi. Il titolo di un suo brano, ad esempio, è "Finding Higgs Boson".


Curiosamente, quel brano è stato pubblicato in un album postumo (di Zappa sono decine...) in cui appare anche "Touring Can Make You Crazy", che proviene da un suo disco di alcuni decenni prima, "200 Motels", pubblicato nel 1971.


L'album "200 Motels" è a sua volta una costruzione molto originale, per l'epoca. Composta da 34 o 39  brani (dipende dall'edizione e vi ricordo che al tempo i dischi erano in vinile, con le conseguenti costrizioni fisiche di registrazione), è la colonna sonora di un film interpretato da Zappa e dal suo gruppo (i "Mothers Of Invention"), ed include brani suonati insieme alla Royal Philarmonic Orchestra, il che consente di percepire tutta l'influenza su Zappa di alcuni grandi compositori come Igor StravinskyEdgard Varèse e Anton Webern.


Non c'è nulla che faccia immaginare che Zappa abbia mai pensato "TURING Can Make You Crazy".


Ma sapere e capire cos'è il bosone di Higgs, suggerisce che Zappa, come Turing, fosse assai interessato a certi processi logici ed alle capacità di astrazione della mente (ché Varèse, senza quella, è inascoltabile).


Addiritura, come Turing aveva inventato un test per stabilire l'intelligenza di una macchina, così Zappa racconta come usasse "Ionization" (o, più correttamente, ""The Complete Works of Edgard Varese, Volume One"") come test del suo interlocutore: se l'ascoltatore apprezzava, Zappa poteva considerarlo sufficientemente intelligente da poter diventare suo amico.


Dunque il gioco di parole che costituisce il titolo di questo post altro non è che un gioco di parole. 


Un gioco di parole a cui credo, così come Zappa pensava che "I still think Deserts is about Lancaster, even if the liner notes on the Columbia LP say it's something more philosophical.".

lunedì 2 maggio 2011

Ricetta per viaggiatori

Certe passioni possono nascere per caso, come per un colpo di fulmine.
Altre invece vanno cercate.
Altre ancora sono frutto della rabbia.

A me capita con la musica.

La musica in generale mi piace da sempre, ma più passa il tempo più passo ad ascoltare nuova musica. Volontariamente.

Mi accade in particolare con i grandi autori, a qualsiasi genere musicale appartengano.

Come dice spesso il mio amico Pali (insigne musicista di cui questo è il nick), citando un famoso autore, "la musica è ciò che uno ascolta pensando che lo sia."
Già questa frase apre panorami vastissimi ed elimina il senso della domanda che ci si pone quando qualcuno ha gusti musicali così diversi dai nostri: "come fa a piacergli quella roba lì? Per me non è neanche musica, quella."
Insomma, la frase di Pali è un'ottimo antidoto alla chiusura della mente.

Partendo da questo presupposto non è comunque detto che i propri gusti cambino o si estendano, ovviamente.

Però...

"Miles Davis", "Beethoven", "Muddy Waters", "Frank Zappa"... sono nomi che tutti abbiamo sentito, che sono arrivati a noi esattamente perché queste persone sono ritenuti dei "grandi" nel loro genere (e anzi "grandi della musica" e basta, andrebbe detto).

Già. Ma io di Frank Zappa non so nulla, proprio mai sentito un singolo brano.

E questo mi fa rabbia. Molta rabbia.

Mi fa rabbia perché so di perdere qualcosa nel non conoscere la sua musica, se a tanta gente trasmette qualcosa.
Mi fa rabbia esattamente come quando non riesco a "visualizzare" una legge della fisica o un processo logico.

E allora non resta che andare in cucina.

Se a qualcuno può servire, ecco la mia personalissima ricetta:

  • scaricare da Internet una tonnellata di musica dell'autore in questione;
  • ascoltarla ripetutamente, ignorando il fatto che tale ascolto inizialmente può non dare la minima soddisfazione;
  • isolare i brani con cui, poco o tanto, si sente di avere maggior feeling;
  • incominciare a leggere (o farsi raccontare, se se ne ha la possibilità) tutto quello che riguarda quel brano, quel disco, quell'opera;
  • a questo punto, comincia l'effetto domino: 
  • leggendo com'è nata l'opera x, sicuramente ci saranno riferimenti all'opera y e z;
  • a questo punto, si è spinti ad ascoltare y e z e si scopre che esse sono interessanti, o almeno meno insignificanti di quanto non lo sembrassero quando le si erano ascoltate in precedenza;
  • ascoltata x, y e z, automaticamente si memorizzano vari "topos" dell'autore in questione (una modalità musicale, una certa maniera di scegliere le parole, alcune modalità ricorrenti nell'usare la voce e questo o quel strumento, ecc. ecc.);
  • a questo punto, si ha la sensazione di cominciare a conoscere quel tal artista e, se piace, il resto viene da sé. Se invece ancora non lo si sente affine alla propria sensibilità, lo si può tranquillamente e coscientemente lasciar perdere. Ma vedrete che non sarà facile... 
La ricetta va usata con grande attenzione: mondi sconosciuti riempiranno presto la vostra testa e vi invoglieranno a fare altri viaggi e più viaggerete, più scoprirete che la meta si allontana, e più vi allontanerete, più aumenterà la vostra velocità nel percepire sempre nuove curiosità.

Un big bang, insomma. E l'Universo che è  nella mente comincerà ad espandersi, magari spingendovi a pensare che quello astronomico è solo una frazione del piacere incommensurabile di capire e di sentire insieme.

mercoledì 27 aprile 2011

Il numero giusto è 4

Per quanto si possa invecchiare, c'è sempre l'occasione per cambiare idea o almeno per rivedere certe opinioni consolidate.

Ieri sera, grazie a Mario Brunello ed alla sua "Antiruggine", ho potuto assistere dapprima ad una sua conversazione con Giovanna Zucconi e poi allo spettacolo "Garibaldi 32", condotto da Laura Pazzaglia e dal Quartetto di Cremona.

Il dialogo iniziale si basava sulla rassomiglianza tra il quartetto d'archi e la "democrazia perfetta". Tralascio le spiegazioni date, ma quel che ho capito ieri è che la democrazia non si fa in tre, così da poter prendere le decisioni in 2 contro 1, così come avevo sempre immaginato.

La democrazia si fa in 4, proprio perché in quel modo si è forzatamente portati a due comportamenti di grande e positiva influenza.
Per prima cosa, essere in 4 porta a trovare comunque una soluzione che si basi sull'ascolto di tutti ed integri le necessità di tutti, non potendo facilmente passare ad una decisione a maggioranza assoluta.
Secondariamente, in 4 è assai più facile che, limate le più aspre differenze, tutti tendano ad un risultato condiviso.

L'essere "dispari" è senza dubbio un metodo molto più veloce per decidere, ma resta la naturale tendenza degli esclusi (la minoranza) a non condividere la strada intrapresa, con ovvia maggiore difficoltà nell'andare avanti e nel raggiungere risultati significativi. E' quindi anche una strada che, alla fine, porta probabilmente anche ad allungare il tempo intercorrente tra l'assunzione della decisione e la sua realizzazione.

A questa prima parte della serata, si legava perfettamente lo spettacolo seguente, "Garibaldi 32", basato sulla storia del "Quartetto Italiano", forse il più grande quartetto d'archi del '900.

Se vi capita l'occasione, non perdetelo.


sabato 23 aprile 2011

Un paio di cose buone...

Se siete interessati alla scienza, ma non siete degli specialisti penso sia interessante una bella trasmissione da poco in onda su RAI Storia.

Si tratta di Dixit Scienza, dura un paio d'ore ed è composta da vari servizi e trasmissioni. Il livello mi pare scientificamente assolutamente elevato ed attendibile, senza essere inutilmente accademico o noioso.

Va in onda il Martedì sera alle 21.00 e replicato il Sabato alle 15.

Se non vi basta ancora e non vi spaventa la fatica di capire, allora potete iscrivervi a questo blog:

http://astronomicamentis.blogosfere.it/

che ha come sottotitolo "Gli scienziati e le loro idee sull'Universo"....

Se invece siete creazionisti, può bastarvi questo: http://www.youtube.com/watch?v=zHCUHbZ-zqs

giovedì 21 aprile 2011

Intervista

Rolling Stones (RS.)* “Ti aspettavi che “Pogrom” avesse un successo così?”
J. “No. Le altre mie opere non avevamo mai avuto un vero "successo". Le ascoltavano un po' di persone. E mi sa che le conoscevo tutte! - ride -.”

RS. “C’è stato un momento, un fatto… qualcosa che ti ha fatto capire che ce l’avevi fatta?”
J. “Non ho scritto quella musica per diventare famoso… per “farcela” – sorride – Io scrivo musica da quasi quaranta anni e vivo di quello: questo mi basta. Comunque un fatto c’è stato: ero a Monaco, fermo ad un passaggio pedonale, una macchina si è fermata al semaforo e ho sentito “Pogrom”… il terzo movimento… Non avrei mai pensato di sentire la mia musica per strada.”

RS. “Cosa ti è venuto in mente?”
J. “Mi faceva piacere, ovviamente. Poi mi ha stupito anche che qualcuno ascoltasse un concerto di quel tipo mentre guidava. “Pogrom” non è musica facile, la musica “eurocolta contemporanea”, come la chiamano i critici, non l’ascoltano in molti.”

RS. “Come la definiresti, tu, la tua musica?”
Si alza dalla sedia, si guarda intorno, siamo in una stanza piena di libri e niente altro, pensa un attimo
J. “Musica. Musica e basta. Buona musica, spero. E mi fa piacere non aver mai scritto niente che cercasse di portare chi ascolta verso la tristezza o la nostalgia.” Ride.

RS. “E’ vero.” – il suo viso si fa più dolce, come prestasse più attenzione alle mie parole, ora - Il tuo successo è partito da qui, ma in poche settimane ne sono state vendute milioni di copie.. Inghilterra, Germania, Francia, poi da noi, negli Stati Uniti. Ti sei spiegato come mai sia piaciuta tanto, visto che, come dici tu “non è musica facile”?”
J. “Quando ho scritto “Pogrom” non ero io. Qualche idea, qualche frammento lo avevo in testa da anni. Per metterli insieme, per costruire l’ordito e la trama di un concerto così non basta quello che sei, non basta la tua individualità, la tua esperienza, la tua vita…” – sospende le parole, le cerca, c’è qualche secondo di vuoto – “Ad un certo punto ho smesso di essere me stesso, ho lasciato che quei frammenti prendessero il sopravvento nella mia testa.. “

RS. “E dunque?”
J. “Vorrei spiegarmi meglio… il mio inglese non è così buono, mi dispiace …Non c’è stato un attimo, un qualcosa che ha cambiato le cose improvvisamente. Solo che, lasciando scorrere quei piccoli brani, a volte davvero di pochissime note, ho cominciato a pensare diversamente, ad “usare” esperienze che non erano mie, come se stessi incarnando altro e altri.. “Pogrom” non è autobiografica, intendo. E’ la biografia di qualcun altro, di altri, anzi. Di tutti quelli che non dettano le regole del mondo, ma che vivono al margine e che vengono inghiottiti dalla Storia.”

RS. “Pensi piaccia per questo?”
J. “Sono un musicista e conosco i trucchi del mestiere: se voglio posso benissimo scrivere qualcosa “che piace” a chi ascolta. Più o meno così nasce la musica che ha successo, che nasce per avere successo. Mentre scrivevo “Pogrom” non ero un musicista: ero uno dei tanti, di quelli picchiati per strada, di quelli che per strada picchiano, di quelli che sono passati per il camino e anche l’uomo che ha aperto le docce del gas poco prima. Sentivo il rumore delle bombe che cadevano su Dubrovnik: lo sentivo dal basso delle case e dallo schianto secco che fa il proiettile quando esce dall’obice, mentre sei lì che spari.. E’ possibile che chi ascolta, abbia apprezzato il fatto che ho cercato di non mentire e non giudicare, mentre scrivevo.”

RS. “Sei pessimista?”
J. “La prossima domanda, per favore.”


RS. “I primi tre movimenti di “Pogrom” non hanno un titolo. L’ultimo invece si chiama “11 Settembre”: perchè?”
J. “Sembra che lo stato naturale del mondo sia la guerra.”

RS. “Vuoi spiegarti meglio, per i nostri lettori?”
J. “Non mi piace il termine “guerra”: è limitativo e ricorda automaticamente il sangue e le armi. Preferisco la parola “harb”, in arabo: vuol dire “conflitto”… questa parola ha un’accezione che mi sembra più indicata per descrivere il mondo… c’è dentro il senso di contrasto, di fatica, di obiettivo difficile da raggiungere e forse anche irraggiungibile…” – si interrompe, va verso un piccolo fornello dove non c’è altro che una teiera e due tazze, mette l’acqua sul fuoco – “Ogni giorno, pare che ognuno su questo pianeta debba raggiungere un obiettivo: per molti, per la maggioranza credo, singolarmente quello specifico obiettivo è buono… ma quando questi singoli sono insieme, sembra che l’insieme dei loro obiettivi buoni non sia in grado di generare altro che un unico obiettivo negativo che coincide nel sopraffare qualche altro insieme umano … per il petrolio, per l’acqua, per il potere, per la ricchezza..”

RS. “”1989” è il titolo di una tua opera, l’ultima prima di “Pogrom”. Di cosa parla?”
J. “ Quando è caduto il muro di Berlino, nessuno di noi ci credeva. Sembrava impossibile. Andavamo per strada a bere… abbiamo bevuto birra, slivovitz, vodka …. qualsiasi liquore capitasse a tiro… Quella volta abbiamo bevuto tutto, proprio tutto: anche le fandonie che ci raccontavano. Che il mondo sarebbe stato migliore, che era “scoppiata la pace”, che c’era la fine delle ideologie “che avevano riempito di guerre il ‘900”… Eravamo tanto giovani. E persino più stupidi di quanto fossimo giovani, in proporzione.” – si avvicina a me e mi guarda… ha gli occhi lucidi, direi più di rabbia che di commozione – “Tu l’hai ascoltata “1989”?.

RS. “Sì, certo. E mi è piaciuta molto”
J. “”1989” è una composizione molto semplice, musicalmente. Non c’è niente di complesso, né nella partitura né nelle indicazioni per l’orchestra. Ho voluto lasciare che l’orchestra potesse essere libera al massimo nell’interpretazione: in quei giorni noi ci sentivamo liberi così, di capire quel che volevamo capire, di far coincidere le speranze con i nostri sogni. Che suonino le mie note come fossero loro, dunque.”

Si alza di nuovo. L’acqua sta per bollire, chiude il fuoco, versa le foglie di tè e torna a sedersi.

RS. “Ti capita di pensare che “passerai di moda”?”
Ride. Gli occhi e tutto il viso hanno un’espressione che fin qui non avevo mai visto, né oggi né quando ci conoscemmo dietro il palco del Concerto del Nuovo Anno, a Vienna due anni fa.
J. “Quanti anni hai? Posso chiedertelo?”

RS. “32.”
J. “Quando sono nato, nel 1965, ero jugoslavo, comunista e musulmano. Da ragazzo parlavo bosniaco, adesso quasi solo arabo. La Jugoslavia non esiste più da tanto tempo, dicono sia finito il comunismo, e la fede riguarda solo me, in fin dei conti: può essere che la mia musica piaccia, che si venda, che la gente l’ascolti, ma io non sono di moda, ti pare?”

Si alza. Versa il tè, con molta cura. Si avvicina e mi porge una delle due tazze, con un sorriso leggero, la prendo, lui ritrae la mano e la porta, come l’altra, attorno alla tazza, che ora stringe con tutte e due le mani, forte come se le volesse scaldare, mentre guarda fuori la neve sui tetti della Grande Moschea di Varsavia.



*Carol De Beers per Rolling Stones – Gennaio 2025

mercoledì 20 aprile 2011

Affidarsi

Come si sarà capito, in questo blog ci sono più domande che risposte.

Leggendo questo articolo, magari depurato di qualche eccesso giornalistico, di questioni ne sorgono tantissime.

Passati due anni dalla sua pubblicazione, viene da pensare al fatto che azienda e lavoratore (di qualsiasi grado esso sia) sembrano sempre più distanti e, insieme, sempre più connessi.

Sebbene questa sensazione si rafforzi ogni volta che si vive un periodo di crisi economica (se vi capita, leggetevi "Furore" di John Steinbeck, la cui storia si svolge proprio in quel periodo), questa dicotomia tra l'umano ed uno dei suoi più classici ambienti sociali è sempre presente nella nostra storia recente.

Se è vero, com'è stato detto, che lo Stato si fonda sulla paura, o meglio sulle paure, e che a queste pone freno attraverso le sue attività più classiche (difesa delle frontiere, dell'ordine interno, del lavoro ecc.) ci si può chiedere quanto l'azienda possa sostituire, in un momento di "Stato debole" in molti Paesi, quella funzione protettiva.

Spesso questa fiducia riversata verso l'azienda verso cui si lavora viene tradita.
Ed i discorsi "cinici" di molti, non preservano quelle stesse persone dal dolore che tale "tradimento" comporta.

Dunque, ci si fida periodicamente di qualcosa che già sappiamo lucidamente (sulla base delle regole del mercato) si comporta con ampio disinteresse dei destini umani coinvolti nelle proprie dinamiche economiche.

Quanto è forte la paura umana del domani, se essa è così forte da far ripetere continuamente questo "affidamento" nonostante le continue disillusioni?

E le parole? Quanto del gergo che usiamo per parlare di lavoro sono fragili culle della fatica di vivere?
"Welfare" sembra la perfetta sintesi di quest'ultimo interrogativo.

martedì 19 aprile 2011

Meglio non dirlo in giro

Il numero di stelle presenti nel nostro Universo è tale che esso sovrasta i granelli di sabbia presenti sulle spiagge del nostro pianeta.

Non so come abbiano fatto il calcolo, ma è interessante che esso possa corrispondere alla realtà.

Detto questo, il fatto che esistano pianeti in numero fantastiliardico ne deriva facilmente. Questo fa aumentare la possibilità che esistano nell'Universo altre forme di vita e, tra queste, qualcuna di intelligente.
Per quanto riguarda la nostra galassia, qualcuno ha anche già provato a fare i conti, ma i valori da attribuire alle variabili in gioco sono ipotetici.

Lasciando perdere il fatto che il rapporto tra distanze siderali e tecnologie umane lascia pensare che, casomai, saranno gli altri a prendere contatto con noi, perlomeno per qualche tempo ancora, si è parlato di come fare per comunicare la nostra esistenza ai possibili "turisti" che avessero voglia di visitare il nostro pianeta azzurro.

E' in questo senso che si sono spediti in cielo alcuni aggeggi che, se compresi dai possibili e sconosciuti destinatari, dovrebbero spiegare loro che sulla Terra c'è vita intelligente.

Detto questo, si ragiona se sia il caso di far sapere ad altri che esistiamo. Se ci basiamo su come funziona il nostro mondo terrestre, pare che segnalare la propria esistenza ad altre sconosciute civiltà sia implicitamente pericoloso.

Mi fermo qui perché, anche questa volta, il discorso mi interessa per altri fattori. Molto umani, direi.

Appena abbiamo potuto averne i mezzi (per quanto probabilisticamente del tutto risibili) abbiamo voluto provare a far conoscere la nostra esistenza, al di là di ogni ragionevole prudenza, si direbbe.

Proprio come un blogger, insomma.

E perché segnaliamo la presenza della nostra specie? Ecco, questa domanda mi attrae più dei marziani.

Forse perché la nostra cultura terrestre (religioni, credo, superstizioni assortite) ha come topos globale l'attesa messianica di un qualcosa/qualcuno che cambi tutto, anche distruggendo casomai?

"Perché ci sentiamo soli" è invece una risposta che non condivido, perché deriva da quanto appena scritto: ci sentiamo soli E QUINDI vorremmo conoscere qualcuno che ci faccia star meglio (e ci accontenteremmo volentieri di un messia verde con il naso a trombetta e le antenne, purché almeno in grado di estinguerci il mutuo).

Quella solitudine dovrebbe darci tristezza. Ma la tristezza, nell'Universo, serve?

Non esiste? Allora ha un nome.

Vi verrebbe mai in mente di chiamare "nuvola" l'acquedotto che vi porta l'acqua in casa o la rete di cavi che vi consente di avere l'energia elettrica?

Beh, se non siete nell'ambiente dell'Information Technology, forse non sapete che la parola "nuvola" (o meglio "cloud") è attualmente utilizzata per definire il complesso di hardware e software che genera servizi internet utilizzabili tramite il vostro browser.
In questo senso, anche questo blog è, diciamo, creato e distribuito attraverso il "cloud".

Detto che il "cloud" è un acquedotto, i pc, i telefonini, gli ipad ecc. ecc. sono i rubinetti.

L'idea è che si possa aprire indistintamente uno di questi rubinetti (in gergo "device") ed ottenere sempre la stessa acqua (cioè la stessa applicazione software). Sembra facile ma non lo è, perché i vari tipi di "rubinetto" in questione sono molto diversi tra loro e quindi si cerca di fare in modo di produrre dell'"acqua" che sia in grado di scorrere in qualsiasi tipo di "rubinetto".

Vi affascina tutto ciò?

A me spinge ad una considerazione: fino a quando si parlerà di applicazioni "device independent" (cioè in grado di funzionare su qualsiasi tipo di dispositivo dotato di browser) vorrà dire che non le abbiamo ancora ottenute, o meglio che non tutte lo sono.

In tutto ciò, trovo che la cosa più interessante sia il processo con cui nascono e muoiono le parole, particolarmente nel mondo delle tecnologie.
Questi termini ("cloud", "device indipendent", "software as a service", ecc. ecc.) nascono spesso PRIMA che ciò che esse designano esista e spariscono appena DOPO la sua nascita (o il suo definitivo sviluppo).

Trovo sia un bel gioco di rimandi tra parole e realtà, tra nome e concetto.
Ed anche un sistema piuttosto preciso per definire ciò che ha acquisito un'esistenza consistente o sia ancora ad uno stadio precedente.

Insomma, se ha un nome vuol dire che non esiste ancora compiutamente, o meglio che il concetto è confondibile perché non ancora oggettivamente riconoscibile.

Se esiste, non ha un nome (o meglio non ne ha necessità).

Tutto ciò nasce solo da una necessità di marketing (vendere qualcosa prima ancora che esista) o ha a che fare con l'atavica attesa del futuro e la sua incertezza?

lunedì 18 aprile 2011

Non c'è tempo

Su cosa sia davvero il tempo si può discutere a lungo.

Non lo farò qui oggi (e chi ha letto "Il primo" avrà già inteso quanto mi sembri implicitamente divertente la frase che precede la parentesi appena aperta).

Detto questo, le parole che state leggendo ci mettono un certo tempo a passare dal video alla vostra percezione.
L'occhio vede, comunica al cervello cosa ha visto, quello elabora l'immagine, capisce che è una parola e gli attribuisce un significato (cercando anche che sia coerente con mille altri fattori).
Ovviamente, questo accade con qualsiasi altra percezione sensoriale.

Perché succeda tutto questo fenomeno passa qualche piccolissima frazione di secondo.

Che sia "piccolissima" è del tutto soggettivo e legato alla nostra specie ed ai suoi ritmi vitali, che sia "frazione" e "di secondo" lo si misura scientificamente e lo si riporta ad altri nostri parametri convenzionali.

Immaginate che questo tempo sia però "lungo" e "molti secondi", diciamo un minuto.
Anzi, facciamo un'ora. Una bella ora tonda tonda.

Se voi guardaste un evento in televisione con un ritardo di un'ora, direste che è "in differita di un'ora".

Ora tornate a "piccolissima frazione di secondo" e avrete raggiunto l'idea giusta: la nostra vita è tutta "in differita di una piccolissima frazione di secondo".

Se l'idea vi pare bizzarra, non preoccupatevene: questa pagina è stata scritta solo per sottolineare la capacità di astrazione che ha la nostra mente e l'avete appena usata per fare questo giochino.

Se poi l'idea di vivere una vita in differita vi suggerisce altri pensieri, meglio ancora. E con parole come "eco" o "joystick" potreste far fatica a prender sonno, stasera.

Adattamento umano

L'uomo è un essere che si adatta con grande duttilità al mondo che gli sta intorno.
Nonostante questo, non si fida molto delle sue reali capacità di riuscirci.

Siccome mi occupo (anche) di Information Technology ricordo benissimo quando si riteneva che il Grande Problema fosse quello di cambiare il modo di comunicare le proprie intenzioni al computer e si parlava di come andare oltre l'interfaccia mouse+icone+menu. "Finché non supereremo questo ostacolo ecc. ecc. " minacciando di seguito tutte le catastrofi che sarebbero seguite se davvero non fosse stato risolto questo immane problema.

Mentre si tenevano convegni a riguardo, sono nati molti bambini.

Sono diventati ragazzi e non hanno nessun problema ad usare il pc, visto che, diversamente dalle generazioni che li hanno preceduti, non hanno dovuto "imparare" come lo si usa. Semplicemente sanno farlo in maniera, per dir così, "naturale", non avendo dovuto rimuovere dalla loro testa conoscenze pregresse a riguardo.

In pratica, gli umani si sono adattati allo strumento prima di trovare un modo di interagire diversamente con esso.

E' giusto?
E' sbagliato?

E' successo.

Il primo

Il primo post è il più pericoloso.

Se questo blog avrà un futuro, in questo post dovrebbe già esserci qualcosa che lo collegherà con tutto quello che accadrà nel blog stesso. E non è facile prevedere il futuro.

Inoltre, se lo prevedessi, questo blog non avrebbe senso, visto che potrebbe darsi che leggendolo si deduca che il futuro esiste tanto poco quanto il passato e più o meno come il presente.

Per adesso, può bastare, considerato che ho i capelli da tagliare, ma è lunedì.

Un ottimo giorno per creare un blog e un paradosso.

Thank you, Lord Russell.