giovedì 21 aprile 2011

Intervista

Rolling Stones (RS.)* “Ti aspettavi che “Pogrom” avesse un successo così?”
J. “No. Le altre mie opere non avevamo mai avuto un vero "successo". Le ascoltavano un po' di persone. E mi sa che le conoscevo tutte! - ride -.”

RS. “C’è stato un momento, un fatto… qualcosa che ti ha fatto capire che ce l’avevi fatta?”
J. “Non ho scritto quella musica per diventare famoso… per “farcela” – sorride – Io scrivo musica da quasi quaranta anni e vivo di quello: questo mi basta. Comunque un fatto c’è stato: ero a Monaco, fermo ad un passaggio pedonale, una macchina si è fermata al semaforo e ho sentito “Pogrom”… il terzo movimento… Non avrei mai pensato di sentire la mia musica per strada.”

RS. “Cosa ti è venuto in mente?”
J. “Mi faceva piacere, ovviamente. Poi mi ha stupito anche che qualcuno ascoltasse un concerto di quel tipo mentre guidava. “Pogrom” non è musica facile, la musica “eurocolta contemporanea”, come la chiamano i critici, non l’ascoltano in molti.”

RS. “Come la definiresti, tu, la tua musica?”
Si alza dalla sedia, si guarda intorno, siamo in una stanza piena di libri e niente altro, pensa un attimo
J. “Musica. Musica e basta. Buona musica, spero. E mi fa piacere non aver mai scritto niente che cercasse di portare chi ascolta verso la tristezza o la nostalgia.” Ride.

RS. “E’ vero.” – il suo viso si fa più dolce, come prestasse più attenzione alle mie parole, ora - Il tuo successo è partito da qui, ma in poche settimane ne sono state vendute milioni di copie.. Inghilterra, Germania, Francia, poi da noi, negli Stati Uniti. Ti sei spiegato come mai sia piaciuta tanto, visto che, come dici tu “non è musica facile”?”
J. “Quando ho scritto “Pogrom” non ero io. Qualche idea, qualche frammento lo avevo in testa da anni. Per metterli insieme, per costruire l’ordito e la trama di un concerto così non basta quello che sei, non basta la tua individualità, la tua esperienza, la tua vita…” – sospende le parole, le cerca, c’è qualche secondo di vuoto – “Ad un certo punto ho smesso di essere me stesso, ho lasciato che quei frammenti prendessero il sopravvento nella mia testa.. “

RS. “E dunque?”
J. “Vorrei spiegarmi meglio… il mio inglese non è così buono, mi dispiace …Non c’è stato un attimo, un qualcosa che ha cambiato le cose improvvisamente. Solo che, lasciando scorrere quei piccoli brani, a volte davvero di pochissime note, ho cominciato a pensare diversamente, ad “usare” esperienze che non erano mie, come se stessi incarnando altro e altri.. “Pogrom” non è autobiografica, intendo. E’ la biografia di qualcun altro, di altri, anzi. Di tutti quelli che non dettano le regole del mondo, ma che vivono al margine e che vengono inghiottiti dalla Storia.”

RS. “Pensi piaccia per questo?”
J. “Sono un musicista e conosco i trucchi del mestiere: se voglio posso benissimo scrivere qualcosa “che piace” a chi ascolta. Più o meno così nasce la musica che ha successo, che nasce per avere successo. Mentre scrivevo “Pogrom” non ero un musicista: ero uno dei tanti, di quelli picchiati per strada, di quelli che per strada picchiano, di quelli che sono passati per il camino e anche l’uomo che ha aperto le docce del gas poco prima. Sentivo il rumore delle bombe che cadevano su Dubrovnik: lo sentivo dal basso delle case e dallo schianto secco che fa il proiettile quando esce dall’obice, mentre sei lì che spari.. E’ possibile che chi ascolta, abbia apprezzato il fatto che ho cercato di non mentire e non giudicare, mentre scrivevo.”

RS. “Sei pessimista?”
J. “La prossima domanda, per favore.”


RS. “I primi tre movimenti di “Pogrom” non hanno un titolo. L’ultimo invece si chiama “11 Settembre”: perchè?”
J. “Sembra che lo stato naturale del mondo sia la guerra.”

RS. “Vuoi spiegarti meglio, per i nostri lettori?”
J. “Non mi piace il termine “guerra”: è limitativo e ricorda automaticamente il sangue e le armi. Preferisco la parola “harb”, in arabo: vuol dire “conflitto”… questa parola ha un’accezione che mi sembra più indicata per descrivere il mondo… c’è dentro il senso di contrasto, di fatica, di obiettivo difficile da raggiungere e forse anche irraggiungibile…” – si interrompe, va verso un piccolo fornello dove non c’è altro che una teiera e due tazze, mette l’acqua sul fuoco – “Ogni giorno, pare che ognuno su questo pianeta debba raggiungere un obiettivo: per molti, per la maggioranza credo, singolarmente quello specifico obiettivo è buono… ma quando questi singoli sono insieme, sembra che l’insieme dei loro obiettivi buoni non sia in grado di generare altro che un unico obiettivo negativo che coincide nel sopraffare qualche altro insieme umano … per il petrolio, per l’acqua, per il potere, per la ricchezza..”

RS. “”1989” è il titolo di una tua opera, l’ultima prima di “Pogrom”. Di cosa parla?”
J. “ Quando è caduto il muro di Berlino, nessuno di noi ci credeva. Sembrava impossibile. Andavamo per strada a bere… abbiamo bevuto birra, slivovitz, vodka …. qualsiasi liquore capitasse a tiro… Quella volta abbiamo bevuto tutto, proprio tutto: anche le fandonie che ci raccontavano. Che il mondo sarebbe stato migliore, che era “scoppiata la pace”, che c’era la fine delle ideologie “che avevano riempito di guerre il ‘900”… Eravamo tanto giovani. E persino più stupidi di quanto fossimo giovani, in proporzione.” – si avvicina a me e mi guarda… ha gli occhi lucidi, direi più di rabbia che di commozione – “Tu l’hai ascoltata “1989”?.

RS. “Sì, certo. E mi è piaciuta molto”
J. “”1989” è una composizione molto semplice, musicalmente. Non c’è niente di complesso, né nella partitura né nelle indicazioni per l’orchestra. Ho voluto lasciare che l’orchestra potesse essere libera al massimo nell’interpretazione: in quei giorni noi ci sentivamo liberi così, di capire quel che volevamo capire, di far coincidere le speranze con i nostri sogni. Che suonino le mie note come fossero loro, dunque.”

Si alza di nuovo. L’acqua sta per bollire, chiude il fuoco, versa le foglie di tè e torna a sedersi.

RS. “Ti capita di pensare che “passerai di moda”?”
Ride. Gli occhi e tutto il viso hanno un’espressione che fin qui non avevo mai visto, né oggi né quando ci conoscemmo dietro il palco del Concerto del Nuovo Anno, a Vienna due anni fa.
J. “Quanti anni hai? Posso chiedertelo?”

RS. “32.”
J. “Quando sono nato, nel 1965, ero jugoslavo, comunista e musulmano. Da ragazzo parlavo bosniaco, adesso quasi solo arabo. La Jugoslavia non esiste più da tanto tempo, dicono sia finito il comunismo, e la fede riguarda solo me, in fin dei conti: può essere che la mia musica piaccia, che si venda, che la gente l’ascolti, ma io non sono di moda, ti pare?”

Si alza. Versa il tè, con molta cura. Si avvicina e mi porge una delle due tazze, con un sorriso leggero, la prendo, lui ritrae la mano e la porta, come l’altra, attorno alla tazza, che ora stringe con tutte e due le mani, forte come se le volesse scaldare, mentre guarda fuori la neve sui tetti della Grande Moschea di Varsavia.



*Carol De Beers per Rolling Stones – Gennaio 2025

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