mercoledì 27 aprile 2011

Il numero giusto è 4

Per quanto si possa invecchiare, c'è sempre l'occasione per cambiare idea o almeno per rivedere certe opinioni consolidate.

Ieri sera, grazie a Mario Brunello ed alla sua "Antiruggine", ho potuto assistere dapprima ad una sua conversazione con Giovanna Zucconi e poi allo spettacolo "Garibaldi 32", condotto da Laura Pazzaglia e dal Quartetto di Cremona.

Il dialogo iniziale si basava sulla rassomiglianza tra il quartetto d'archi e la "democrazia perfetta". Tralascio le spiegazioni date, ma quel che ho capito ieri è che la democrazia non si fa in tre, così da poter prendere le decisioni in 2 contro 1, così come avevo sempre immaginato.

La democrazia si fa in 4, proprio perché in quel modo si è forzatamente portati a due comportamenti di grande e positiva influenza.
Per prima cosa, essere in 4 porta a trovare comunque una soluzione che si basi sull'ascolto di tutti ed integri le necessità di tutti, non potendo facilmente passare ad una decisione a maggioranza assoluta.
Secondariamente, in 4 è assai più facile che, limate le più aspre differenze, tutti tendano ad un risultato condiviso.

L'essere "dispari" è senza dubbio un metodo molto più veloce per decidere, ma resta la naturale tendenza degli esclusi (la minoranza) a non condividere la strada intrapresa, con ovvia maggiore difficoltà nell'andare avanti e nel raggiungere risultati significativi. E' quindi anche una strada che, alla fine, porta probabilmente anche ad allungare il tempo intercorrente tra l'assunzione della decisione e la sua realizzazione.

A questa prima parte della serata, si legava perfettamente lo spettacolo seguente, "Garibaldi 32", basato sulla storia del "Quartetto Italiano", forse il più grande quartetto d'archi del '900.

Se vi capita l'occasione, non perdetelo.


sabato 23 aprile 2011

Un paio di cose buone...

Se siete interessati alla scienza, ma non siete degli specialisti penso sia interessante una bella trasmissione da poco in onda su RAI Storia.

Si tratta di Dixit Scienza, dura un paio d'ore ed è composta da vari servizi e trasmissioni. Il livello mi pare scientificamente assolutamente elevato ed attendibile, senza essere inutilmente accademico o noioso.

Va in onda il Martedì sera alle 21.00 e replicato il Sabato alle 15.

Se non vi basta ancora e non vi spaventa la fatica di capire, allora potete iscrivervi a questo blog:

http://astronomicamentis.blogosfere.it/

che ha come sottotitolo "Gli scienziati e le loro idee sull'Universo"....

Se invece siete creazionisti, può bastarvi questo: http://www.youtube.com/watch?v=zHCUHbZ-zqs

giovedì 21 aprile 2011

Intervista

Rolling Stones (RS.)* “Ti aspettavi che “Pogrom” avesse un successo così?”
J. “No. Le altre mie opere non avevamo mai avuto un vero "successo". Le ascoltavano un po' di persone. E mi sa che le conoscevo tutte! - ride -.”

RS. “C’è stato un momento, un fatto… qualcosa che ti ha fatto capire che ce l’avevi fatta?”
J. “Non ho scritto quella musica per diventare famoso… per “farcela” – sorride – Io scrivo musica da quasi quaranta anni e vivo di quello: questo mi basta. Comunque un fatto c’è stato: ero a Monaco, fermo ad un passaggio pedonale, una macchina si è fermata al semaforo e ho sentito “Pogrom”… il terzo movimento… Non avrei mai pensato di sentire la mia musica per strada.”

RS. “Cosa ti è venuto in mente?”
J. “Mi faceva piacere, ovviamente. Poi mi ha stupito anche che qualcuno ascoltasse un concerto di quel tipo mentre guidava. “Pogrom” non è musica facile, la musica “eurocolta contemporanea”, come la chiamano i critici, non l’ascoltano in molti.”

RS. “Come la definiresti, tu, la tua musica?”
Si alza dalla sedia, si guarda intorno, siamo in una stanza piena di libri e niente altro, pensa un attimo
J. “Musica. Musica e basta. Buona musica, spero. E mi fa piacere non aver mai scritto niente che cercasse di portare chi ascolta verso la tristezza o la nostalgia.” Ride.

RS. “E’ vero.” – il suo viso si fa più dolce, come prestasse più attenzione alle mie parole, ora - Il tuo successo è partito da qui, ma in poche settimane ne sono state vendute milioni di copie.. Inghilterra, Germania, Francia, poi da noi, negli Stati Uniti. Ti sei spiegato come mai sia piaciuta tanto, visto che, come dici tu “non è musica facile”?”
J. “Quando ho scritto “Pogrom” non ero io. Qualche idea, qualche frammento lo avevo in testa da anni. Per metterli insieme, per costruire l’ordito e la trama di un concerto così non basta quello che sei, non basta la tua individualità, la tua esperienza, la tua vita…” – sospende le parole, le cerca, c’è qualche secondo di vuoto – “Ad un certo punto ho smesso di essere me stesso, ho lasciato che quei frammenti prendessero il sopravvento nella mia testa.. “

RS. “E dunque?”
J. “Vorrei spiegarmi meglio… il mio inglese non è così buono, mi dispiace …Non c’è stato un attimo, un qualcosa che ha cambiato le cose improvvisamente. Solo che, lasciando scorrere quei piccoli brani, a volte davvero di pochissime note, ho cominciato a pensare diversamente, ad “usare” esperienze che non erano mie, come se stessi incarnando altro e altri.. “Pogrom” non è autobiografica, intendo. E’ la biografia di qualcun altro, di altri, anzi. Di tutti quelli che non dettano le regole del mondo, ma che vivono al margine e che vengono inghiottiti dalla Storia.”

RS. “Pensi piaccia per questo?”
J. “Sono un musicista e conosco i trucchi del mestiere: se voglio posso benissimo scrivere qualcosa “che piace” a chi ascolta. Più o meno così nasce la musica che ha successo, che nasce per avere successo. Mentre scrivevo “Pogrom” non ero un musicista: ero uno dei tanti, di quelli picchiati per strada, di quelli che per strada picchiano, di quelli che sono passati per il camino e anche l’uomo che ha aperto le docce del gas poco prima. Sentivo il rumore delle bombe che cadevano su Dubrovnik: lo sentivo dal basso delle case e dallo schianto secco che fa il proiettile quando esce dall’obice, mentre sei lì che spari.. E’ possibile che chi ascolta, abbia apprezzato il fatto che ho cercato di non mentire e non giudicare, mentre scrivevo.”

RS. “Sei pessimista?”
J. “La prossima domanda, per favore.”


RS. “I primi tre movimenti di “Pogrom” non hanno un titolo. L’ultimo invece si chiama “11 Settembre”: perchè?”
J. “Sembra che lo stato naturale del mondo sia la guerra.”

RS. “Vuoi spiegarti meglio, per i nostri lettori?”
J. “Non mi piace il termine “guerra”: è limitativo e ricorda automaticamente il sangue e le armi. Preferisco la parola “harb”, in arabo: vuol dire “conflitto”… questa parola ha un’accezione che mi sembra più indicata per descrivere il mondo… c’è dentro il senso di contrasto, di fatica, di obiettivo difficile da raggiungere e forse anche irraggiungibile…” – si interrompe, va verso un piccolo fornello dove non c’è altro che una teiera e due tazze, mette l’acqua sul fuoco – “Ogni giorno, pare che ognuno su questo pianeta debba raggiungere un obiettivo: per molti, per la maggioranza credo, singolarmente quello specifico obiettivo è buono… ma quando questi singoli sono insieme, sembra che l’insieme dei loro obiettivi buoni non sia in grado di generare altro che un unico obiettivo negativo che coincide nel sopraffare qualche altro insieme umano … per il petrolio, per l’acqua, per il potere, per la ricchezza..”

RS. “”1989” è il titolo di una tua opera, l’ultima prima di “Pogrom”. Di cosa parla?”
J. “ Quando è caduto il muro di Berlino, nessuno di noi ci credeva. Sembrava impossibile. Andavamo per strada a bere… abbiamo bevuto birra, slivovitz, vodka …. qualsiasi liquore capitasse a tiro… Quella volta abbiamo bevuto tutto, proprio tutto: anche le fandonie che ci raccontavano. Che il mondo sarebbe stato migliore, che era “scoppiata la pace”, che c’era la fine delle ideologie “che avevano riempito di guerre il ‘900”… Eravamo tanto giovani. E persino più stupidi di quanto fossimo giovani, in proporzione.” – si avvicina a me e mi guarda… ha gli occhi lucidi, direi più di rabbia che di commozione – “Tu l’hai ascoltata “1989”?.

RS. “Sì, certo. E mi è piaciuta molto”
J. “”1989” è una composizione molto semplice, musicalmente. Non c’è niente di complesso, né nella partitura né nelle indicazioni per l’orchestra. Ho voluto lasciare che l’orchestra potesse essere libera al massimo nell’interpretazione: in quei giorni noi ci sentivamo liberi così, di capire quel che volevamo capire, di far coincidere le speranze con i nostri sogni. Che suonino le mie note come fossero loro, dunque.”

Si alza di nuovo. L’acqua sta per bollire, chiude il fuoco, versa le foglie di tè e torna a sedersi.

RS. “Ti capita di pensare che “passerai di moda”?”
Ride. Gli occhi e tutto il viso hanno un’espressione che fin qui non avevo mai visto, né oggi né quando ci conoscemmo dietro il palco del Concerto del Nuovo Anno, a Vienna due anni fa.
J. “Quanti anni hai? Posso chiedertelo?”

RS. “32.”
J. “Quando sono nato, nel 1965, ero jugoslavo, comunista e musulmano. Da ragazzo parlavo bosniaco, adesso quasi solo arabo. La Jugoslavia non esiste più da tanto tempo, dicono sia finito il comunismo, e la fede riguarda solo me, in fin dei conti: può essere che la mia musica piaccia, che si venda, che la gente l’ascolti, ma io non sono di moda, ti pare?”

Si alza. Versa il tè, con molta cura. Si avvicina e mi porge una delle due tazze, con un sorriso leggero, la prendo, lui ritrae la mano e la porta, come l’altra, attorno alla tazza, che ora stringe con tutte e due le mani, forte come se le volesse scaldare, mentre guarda fuori la neve sui tetti della Grande Moschea di Varsavia.



*Carol De Beers per Rolling Stones – Gennaio 2025

mercoledì 20 aprile 2011

Affidarsi

Come si sarà capito, in questo blog ci sono più domande che risposte.

Leggendo questo articolo, magari depurato di qualche eccesso giornalistico, di questioni ne sorgono tantissime.

Passati due anni dalla sua pubblicazione, viene da pensare al fatto che azienda e lavoratore (di qualsiasi grado esso sia) sembrano sempre più distanti e, insieme, sempre più connessi.

Sebbene questa sensazione si rafforzi ogni volta che si vive un periodo di crisi economica (se vi capita, leggetevi "Furore" di John Steinbeck, la cui storia si svolge proprio in quel periodo), questa dicotomia tra l'umano ed uno dei suoi più classici ambienti sociali è sempre presente nella nostra storia recente.

Se è vero, com'è stato detto, che lo Stato si fonda sulla paura, o meglio sulle paure, e che a queste pone freno attraverso le sue attività più classiche (difesa delle frontiere, dell'ordine interno, del lavoro ecc.) ci si può chiedere quanto l'azienda possa sostituire, in un momento di "Stato debole" in molti Paesi, quella funzione protettiva.

Spesso questa fiducia riversata verso l'azienda verso cui si lavora viene tradita.
Ed i discorsi "cinici" di molti, non preservano quelle stesse persone dal dolore che tale "tradimento" comporta.

Dunque, ci si fida periodicamente di qualcosa che già sappiamo lucidamente (sulla base delle regole del mercato) si comporta con ampio disinteresse dei destini umani coinvolti nelle proprie dinamiche economiche.

Quanto è forte la paura umana del domani, se essa è così forte da far ripetere continuamente questo "affidamento" nonostante le continue disillusioni?

E le parole? Quanto del gergo che usiamo per parlare di lavoro sono fragili culle della fatica di vivere?
"Welfare" sembra la perfetta sintesi di quest'ultimo interrogativo.

martedì 19 aprile 2011

Meglio non dirlo in giro

Il numero di stelle presenti nel nostro Universo è tale che esso sovrasta i granelli di sabbia presenti sulle spiagge del nostro pianeta.

Non so come abbiano fatto il calcolo, ma è interessante che esso possa corrispondere alla realtà.

Detto questo, il fatto che esistano pianeti in numero fantastiliardico ne deriva facilmente. Questo fa aumentare la possibilità che esistano nell'Universo altre forme di vita e, tra queste, qualcuna di intelligente.
Per quanto riguarda la nostra galassia, qualcuno ha anche già provato a fare i conti, ma i valori da attribuire alle variabili in gioco sono ipotetici.

Lasciando perdere il fatto che il rapporto tra distanze siderali e tecnologie umane lascia pensare che, casomai, saranno gli altri a prendere contatto con noi, perlomeno per qualche tempo ancora, si è parlato di come fare per comunicare la nostra esistenza ai possibili "turisti" che avessero voglia di visitare il nostro pianeta azzurro.

E' in questo senso che si sono spediti in cielo alcuni aggeggi che, se compresi dai possibili e sconosciuti destinatari, dovrebbero spiegare loro che sulla Terra c'è vita intelligente.

Detto questo, si ragiona se sia il caso di far sapere ad altri che esistiamo. Se ci basiamo su come funziona il nostro mondo terrestre, pare che segnalare la propria esistenza ad altre sconosciute civiltà sia implicitamente pericoloso.

Mi fermo qui perché, anche questa volta, il discorso mi interessa per altri fattori. Molto umani, direi.

Appena abbiamo potuto averne i mezzi (per quanto probabilisticamente del tutto risibili) abbiamo voluto provare a far conoscere la nostra esistenza, al di là di ogni ragionevole prudenza, si direbbe.

Proprio come un blogger, insomma.

E perché segnaliamo la presenza della nostra specie? Ecco, questa domanda mi attrae più dei marziani.

Forse perché la nostra cultura terrestre (religioni, credo, superstizioni assortite) ha come topos globale l'attesa messianica di un qualcosa/qualcuno che cambi tutto, anche distruggendo casomai?

"Perché ci sentiamo soli" è invece una risposta che non condivido, perché deriva da quanto appena scritto: ci sentiamo soli E QUINDI vorremmo conoscere qualcuno che ci faccia star meglio (e ci accontenteremmo volentieri di un messia verde con il naso a trombetta e le antenne, purché almeno in grado di estinguerci il mutuo).

Quella solitudine dovrebbe darci tristezza. Ma la tristezza, nell'Universo, serve?

Non esiste? Allora ha un nome.

Vi verrebbe mai in mente di chiamare "nuvola" l'acquedotto che vi porta l'acqua in casa o la rete di cavi che vi consente di avere l'energia elettrica?

Beh, se non siete nell'ambiente dell'Information Technology, forse non sapete che la parola "nuvola" (o meglio "cloud") è attualmente utilizzata per definire il complesso di hardware e software che genera servizi internet utilizzabili tramite il vostro browser.
In questo senso, anche questo blog è, diciamo, creato e distribuito attraverso il "cloud".

Detto che il "cloud" è un acquedotto, i pc, i telefonini, gli ipad ecc. ecc. sono i rubinetti.

L'idea è che si possa aprire indistintamente uno di questi rubinetti (in gergo "device") ed ottenere sempre la stessa acqua (cioè la stessa applicazione software). Sembra facile ma non lo è, perché i vari tipi di "rubinetto" in questione sono molto diversi tra loro e quindi si cerca di fare in modo di produrre dell'"acqua" che sia in grado di scorrere in qualsiasi tipo di "rubinetto".

Vi affascina tutto ciò?

A me spinge ad una considerazione: fino a quando si parlerà di applicazioni "device independent" (cioè in grado di funzionare su qualsiasi tipo di dispositivo dotato di browser) vorrà dire che non le abbiamo ancora ottenute, o meglio che non tutte lo sono.

In tutto ciò, trovo che la cosa più interessante sia il processo con cui nascono e muoiono le parole, particolarmente nel mondo delle tecnologie.
Questi termini ("cloud", "device indipendent", "software as a service", ecc. ecc.) nascono spesso PRIMA che ciò che esse designano esista e spariscono appena DOPO la sua nascita (o il suo definitivo sviluppo).

Trovo sia un bel gioco di rimandi tra parole e realtà, tra nome e concetto.
Ed anche un sistema piuttosto preciso per definire ciò che ha acquisito un'esistenza consistente o sia ancora ad uno stadio precedente.

Insomma, se ha un nome vuol dire che non esiste ancora compiutamente, o meglio che il concetto è confondibile perché non ancora oggettivamente riconoscibile.

Se esiste, non ha un nome (o meglio non ne ha necessità).

Tutto ciò nasce solo da una necessità di marketing (vendere qualcosa prima ancora che esista) o ha a che fare con l'atavica attesa del futuro e la sua incertezza?

lunedì 18 aprile 2011

Non c'è tempo

Su cosa sia davvero il tempo si può discutere a lungo.

Non lo farò qui oggi (e chi ha letto "Il primo" avrà già inteso quanto mi sembri implicitamente divertente la frase che precede la parentesi appena aperta).

Detto questo, le parole che state leggendo ci mettono un certo tempo a passare dal video alla vostra percezione.
L'occhio vede, comunica al cervello cosa ha visto, quello elabora l'immagine, capisce che è una parola e gli attribuisce un significato (cercando anche che sia coerente con mille altri fattori).
Ovviamente, questo accade con qualsiasi altra percezione sensoriale.

Perché succeda tutto questo fenomeno passa qualche piccolissima frazione di secondo.

Che sia "piccolissima" è del tutto soggettivo e legato alla nostra specie ed ai suoi ritmi vitali, che sia "frazione" e "di secondo" lo si misura scientificamente e lo si riporta ad altri nostri parametri convenzionali.

Immaginate che questo tempo sia però "lungo" e "molti secondi", diciamo un minuto.
Anzi, facciamo un'ora. Una bella ora tonda tonda.

Se voi guardaste un evento in televisione con un ritardo di un'ora, direste che è "in differita di un'ora".

Ora tornate a "piccolissima frazione di secondo" e avrete raggiunto l'idea giusta: la nostra vita è tutta "in differita di una piccolissima frazione di secondo".

Se l'idea vi pare bizzarra, non preoccupatevene: questa pagina è stata scritta solo per sottolineare la capacità di astrazione che ha la nostra mente e l'avete appena usata per fare questo giochino.

Se poi l'idea di vivere una vita in differita vi suggerisce altri pensieri, meglio ancora. E con parole come "eco" o "joystick" potreste far fatica a prender sonno, stasera.

Adattamento umano

L'uomo è un essere che si adatta con grande duttilità al mondo che gli sta intorno.
Nonostante questo, non si fida molto delle sue reali capacità di riuscirci.

Siccome mi occupo (anche) di Information Technology ricordo benissimo quando si riteneva che il Grande Problema fosse quello di cambiare il modo di comunicare le proprie intenzioni al computer e si parlava di come andare oltre l'interfaccia mouse+icone+menu. "Finché non supereremo questo ostacolo ecc. ecc. " minacciando di seguito tutte le catastrofi che sarebbero seguite se davvero non fosse stato risolto questo immane problema.

Mentre si tenevano convegni a riguardo, sono nati molti bambini.

Sono diventati ragazzi e non hanno nessun problema ad usare il pc, visto che, diversamente dalle generazioni che li hanno preceduti, non hanno dovuto "imparare" come lo si usa. Semplicemente sanno farlo in maniera, per dir così, "naturale", non avendo dovuto rimuovere dalla loro testa conoscenze pregresse a riguardo.

In pratica, gli umani si sono adattati allo strumento prima di trovare un modo di interagire diversamente con esso.

E' giusto?
E' sbagliato?

E' successo.

Il primo

Il primo post è il più pericoloso.

Se questo blog avrà un futuro, in questo post dovrebbe già esserci qualcosa che lo collegherà con tutto quello che accadrà nel blog stesso. E non è facile prevedere il futuro.

Inoltre, se lo prevedessi, questo blog non avrebbe senso, visto che potrebbe darsi che leggendolo si deduca che il futuro esiste tanto poco quanto il passato e più o meno come il presente.

Per adesso, può bastare, considerato che ho i capelli da tagliare, ma è lunedì.

Un ottimo giorno per creare un blog e un paradosso.

Thank you, Lord Russell.